La resistenza della società e della politica ad accettare innovazioni che provengano da uno studio integrato, che fondi i propri obiettivi e le modalità ideate per ottenerli su premesse giuridiche e politiche di qualità, è uno dei problemi connessi all’arretramento della politica. In materia di previdenza la nostra società si trova di fronte ad evidenze incontestabili, che imporrebbero di superare l’istituto stesso della pensione fondata sulla contribuzione, perché le criticità di questo strumento di welfare sono ormai connaturate alla crisi di valore che tocca il lavoro e lo Stato sociale.
NAD è stata la prima associazione in Italia a proporre di mutuare meccanismi di garanzia obbligatoria, capaci di sostituire il versamento di contributi, in grado di sovvertire la logica di depauperamento attuale del contribuente, facendo notare che l’accantonamento di reddito futuro, la cosiddetta capitalizzazione “virtuale”, non è in realtà che una finzione, non più in grado di tutelare contemporaneamente presente e futuro del cittadino.
La pensione del resto, così come è stata costruita e concepita dai sistemi di welfare contemporanei, fondava la propria stessa ragione di essere in un concetto solare, che oggi le analisi rigoriste tendono a rimuovere: il debito.
Lo strumento della ripartizione, per cui i contributi versati dai lavoratori attivi servono a pagare le pensioni degli inattivi, è andato ampiamente in crisi, costringendo gli enti previdenziali ad attingere ampiamente dalla fiscalità generale, per poter finanziare il sistema. Nonostante tutte le riforme, i tagli, i tentativi di mantenere in equilibrio una forma di debito intergenerazionale ed intercategoriale, la progressiva diminuzione del numero di occupati in rapporto agli inattivi, unita a prospettive di aumento reddituale insufficienti, mette il sistema pensionistico italiano in grave difficoltà.
Testimone di tale inadeguatezza è l’andamento della ricchezza prodotta, che sempre più tende a slegare il PIL (prodotto interno lordo), ovvero il principale indicatore della ricchezza prodotta nel paese, da dinamiche occupazionali e dunque, non consente di contare su una stretta relazione tra andamento dell’economia, ricchezza dei cittadini ed aumento dei contributi previdenziali versati. Questa evidenza impone di ripensare ad un welfare previdenziale che veda nella contribuzione e nei meccanismi di ripartizione i capisaldi di un’erogazione di trattamenti pensionistici che oggi, e ancor più in futuro, non riusciranno ad essere adeguati allo scopo giuridico che gli sarebbe proprio: garantire ai percettori del trattamento di poter trarre dalla pensione le risorse necessarie a rispondere alle proprie esigenze di vita, una volta terminato il proprio arco di vita lavorativa.
La coesistenza di distorsioni fiscali con quelle di stabilità sistemica della previdenza, amplifica l’inadeguatezza strutturale degli istituti su cui oggi il welfare universale ha fatto affidamento nei nostri ordinamenti ed impone non solo di uscire da situazioni che rompono il patto intergenerazionale, ma di innovare, ripensando alla radice uno strumento, ovvero la pensione, che sembra non essere più in grado di sopportare lo stress di un modo di fare economia non più compatibile con questo strumento di sicurezza sociale.
Tutto ciò però non avviene. Lungi dal riconoscere l’inadeguatezza dei meccanismi, l’assenza di coraggio nell’innovare, sul piano giuridico, istituti non più adeguati ai tempi, si introducono nel nostro ordinamento concetti capaci di garantire tendenziale stabilità a sistemi che in realtà non possono più reggere all’urto dei cambiamenti profondi tra la società del terzo millennio e quella del welfare universale, figlia delle democrazie occidentali del secondo dopoguerra. Il principale strumento di cristallizzazione di un presente inefficiente è sicuramente la sostenibilità.
Con il mito della sostenibilità si attua uno dei più grandi diversivi in danno dei cittadini, sul piano dell’agibilità politica. La sostenibilità, intesa come possibilità dei sistemi previdenziali di garantire la continuità dei trattamenti pensionistici da erogare, ignora la qualità delle prestazioni, il loro ammontare, lo spostamento in avanti dell’età in cui il contribuente potrà finalmente godere dei magri frutti di questo specchietto per allodole. In altri termini la sostenibilità è solo un miraggio, che mira ad impoverire il contribuente nel presente, senza garantirgli affatto un adeguato ritorno reddituale nel futuro. La sostenibilità è un furto ed è utilizzata per impedire il cambiamento, l’innovazione, la nascita di istituti giuridici di superare il concetto di pensione e mutualità obbligatoria, ormai travolto dalla storia e non più in grado di sopravvivere alla propria inutilità.
La natura, sempre più aleatoria e labile, della sostenibilità, in ragione di tensioni metagiuridiche, legate all’andamento economico e demografico, nonché alla capacità del lavoro di conservare valore da trasferire nei contributi previdenziali, rende il sistema intrinsecamente instabile e giuridicamente insostenibile. Non si può seriamente parlare di sostenibilità quando tutti sanno che la tenuta della previdenza è sottoposta ad eventi e circostanze, non solo possibili, ma invero probabili, che mettono in discussione gli elementi dell’accordo implicito nel meccanismo di depauperamento che il contribuente subisce coattivamente, in ragione del versamento dei contributi necessari a finanziare il sistema. E’ un affidamento monco, in cui manca il carattere della reciprocità. Ancora una volta la mutualità obbligatoria prende oggi, in modo certo ed autoritario, senza garantire affatto la certezza del domani, né in relazione all’an del trattamento, né guardando all’età e ad altri elementi capaci di garantire al contribuente certezza del proprio trattamento pensionistico.
Gli istituti giuridici connessi al fenomeno pensionistico non sono più adeguati a fronteggiare la crisi dell’economia immateriale, l’impoverimento del lavoro e l’enorme lascito di debito che grava sulle generazioni odierne. Tutto il sistema di welfare è oggi un colosso che erode risorse sterminate, ma è connotato sempre più da un’asfissia e dall’incapacità di proiettarsi al futuro, che acuiscono l’ingiustizia e l’iniquità intergenerazionale. I giovani, non avendo più la possibilità di scaricare sul futuro i debiti contratti per garantirsi pensioni adeguate, vivono di fatto una condizione di impoverimento che li mette in condizione di palese ed inaccettabile subordinazione nei confronti delle generazioni precedenti.
La rottura del patto generazionale, la necessità del welfare cosiddetto privato, per garantire la sussistenza delle generazioni povere, precarie, figlie della crisi del lavoro, sono uno dei grandi fattori di iniquità ed immoralità della stabilità sociale dei nostri tempi. E’ il mondo alla rovescia, in cui le pensioni dei nonni e dei padri offrono le risorse indispensabili al sostentamento dei figli, che non solo hanno investito tempo, risorse e fatiche in una formazione sconosciuta ai loro avi, terminando il ciclo di studi a ridosso dei trent’anni, ma che restano inoccupati, sottopagati, ed in definitiva dipendenti dalle famiglie di origine ben oltre la soglia della giovinezza, condannandosi ad un futuro di povertà quasi certa, nel caso non posseggano patrimoni o non abbiano alle spalle questo welfare privato, capace di sopperire all’inadeguatezza di quello pubblico.
In uno scenario così deteriorato, sia sotto il profilo etico, che giuridico ed economico, insistere con il concetto di pensione è davvero fuori dal tempo. La pensione è infatti ormai totalmente inadeguata a garantire al cittadino medio le finalità per cui è stata pensata. Occorre superare la mutualità obbligatoria, garantire ai cittadini non più attivi sia attività che trattamenti capaci di integrare le magre pensioni maturate, dare certezze di questi trattamenti, in modo da consentire ai soggetti più giovani di liberare risorse, destinandole ad investimenti produttivi e non ad accantonamenti improduttivi. Solo innovando, superando il concetto di pensione, si potrà garantire la tenuta sociale del nostro sistema. Diversamente, la tanto sbandierata sostenibilità, continuerà ad essere, sia per l’oggi, che più ancora per il domani, niente altro che un drammatico miraggio.
Avv. Salvatore Lucignano