“Il reddito disponibile, questo sconosciuto”.
Il sottotitolo dell’articolo è una triste constatazione sullo stato di profonda ignoranza che regna nel dibattito politico forense. Sia nelle istituzioni, sia tra le associazioni, ci sono squarci nozionistici e culturali, anche rispetto ad elementi e cognizioni che dovrebbero far parte del bagaglio di qualsiasi avvocato. Vediamo dunque di fare un pò di chiarezza e smontare un pò di vacua e risibile propaganda di regime.
In questi mesi sono stato infatti preso da un leggero sconforto, perché la propaganda che si oppone alla battaglia per avere una contribuzione equa, sostenibile e legittima per i percettori di redditi più bassi, ignora totalmente la differenza tra i due concetti di reddito e reddito disponibile.
Avvocati molto decorosi, ma sostanzialmente quasi sempre inconsapevoli, continuano a dire e scrivere che il problema degli avvocati italiani non è la contribuzione previdenziale vessatoria ed illecita, ma i bassi redditi dei professionisti. Semplificando potrei dire che con una sola frase si riescono a dire due banalità.
La prima riguarda l’ovvio: è infatti ovvio che un professionista con alti redditi non abbia il problema della previdenza. Non ci vuole certo una laurea per saperlo, bastando allo scopo l’essere dotati di un minimo di senso comune.
La seconda attiene all’incapacità di comprendere che il reddito disponibile, anche per i professionisti a basso reddito, viene ulteriormente depauperato da imposte, tasse, contributi e spese non voluttuarie, che contribuiscono a limitarne l’ammontare, concorrendo ad impoverire gli avvocati con bassi redditi.
Chunque possieda rudimenti minimi in materia di economia sa che esistono due modi dunque, per aumentare il reddito disponibile del professionista:
1. aumentare il reddito;
2. diminuire le spese che comprimono il reddito disponibile.
Nessuno che sappia di cosa stiamo parlando si sognerebbe dunque di ritenere che la diminuzione della contribuzione previdenziale vessatoria, per i percettori di bassi redditi, non costituisca una misura che avrebbe l’effetto immediato di aumentare il reddito disponibile dei colleghi. Viceversa, chiunque abbia studiato qualche manuale di economia, sa che le misure volte a far aumentare i redditi, diversamente da quelle che agiscono sulle minori spese, risentono delle rigidità del sistema operativo e dunque non possono essere trattate con lo stesso metro utilizzato per la riduzione dei costi.
Proviamo a spiegare di cosa stiamo parlando. Supponiamo di avere un modello costituito da un professionista con reddito di 9.000 euro annui. Tale cifra, se suddivisa per 12 mesi, consente di ottenere un reddito mensile di 750 euro, che è sicuramente molto basso, ma che, magari sommato ad altri redditi familiari, consente sicuramente ad un nucleo non monoreddito di sopravvivere.
Se però analizziamo la somma alla luce del concetto di “reddito disponibile” e proviamo a sottrarre i costi, le imposte e la contribuzione previdenziale minima e obbligatoria, ci accorgiamo che quel reddito, che pure avrebbe funzione socialmente rilevante per l’avvocato o il professionista in difficoltà, può mantenere tale funzione solo in assenza di decurtazioni che ne riducano l’ammontare sotto i limiti utili a garantire la sussistenza del percettore.
La contribuzione previdenziale minima, a regime (ovvero dopo gli otto anni di agevolazioni, previste per i neoiscritti alla Cassa Forense), ammonta oggi per gli avvocati orientativamente a 3650 euro annui. Un reddito di 9.000 euro annui, che debba sostenere il versamento della contribuzione previdenziale minima obbligatoria, si riduce dunque, da 9.000 a 5.350. Ecco, quando si analizza la vicenda “contributi minimi obbligatori”, molti non riescono a fare le giuste analisi, perché non visualizzano cifre e concetti che possano spiegare in concreto il modello di indagine.
Si analizzi un altro elemento: quanto pesa, in percentuale, la contribuzione previdenziale minima obbligatoria, per il percettore di reddito indagato? Esattamente siamo su una percentuale del 40,5%. Il 40,5% del reddito dell’avvocato che guadagna 9.000 euro in un anno, a regime, va versato per la contribuzione previdenziale obbligatoria. Il reddito mensile di quell’avvocato, che al lordo della contribuzione ammontava a 750 euro, piomba, una volta assolti gli oneri contributivi, a 446 euro circa. Ciascuno può valutare, numeri alla mano, di cosa si stia parlando.
Ora, valutati questi dati, si provi ad immaginare di voler aumentare il reddito del professionista che guadagna 9.000 euro all’anno e si provi a proporre una misura, concreta e puntuale, che consenta ciò. In primo luogo si potrà facilmente comprendere che qualsiasi misura normativa generalizzata non si tradurrà necessariamente in un aumento del reddito per “quel” professionista, perché il reddito professionale sarà comunque dato dalle occasioni lavorative dell’avvocato sondato. Inoltre, misure normative generalizzate, aventi il compito di aiutare il “potenziale” aumento dei redditi, sortiranno effetti all’interno del ciclo economico, quindi dovranno essere valutate a regime, per poter cominciare a diffondere i propri benefici per i destinatari dei provvedimenti espansivi.
Questi sono concetti base, non sono nozioni astruse o disponibili a pochi iniziati. I fondamenti dell’economia fanno parte dei programmi di studio della laurea in giurisprudenza, eppure sembrano distanti dalla politica forense più di una remota galassia primordiale.
In definitiva, chi dice che il problema degli avvocati italiani a basso reddito non sia costituito dai contributi previdenziali illegittimi e vessatori, ma dai bassi redditi, dice ovvietà e sciocchezze, per le ragioni sommariamente illustrate in questo articolo. Il cambiamento dei modelli operativi dell’avvocato, la riorganizzazione di un’attività, la razionalizzazione dei costi di impresa, sono tutti elementi che soggiacciono alle leggi economiche, risentono di rigidità di mercato, non si tramutano istantaneamente in aumenti di reddito per chi le applica con successo. Al contrario, spesso necessitano di costi per essere messe in pratica, riducendo ancora di più (e dunque scoraggiandone l’adozione) i redditi disponibili di chi produce bassi redditi.
Al contrario, l’abbattimento dei contributi previdenziali, che oggi costituiscono la voce di costo più importante per gli avvocati a basso reddito, darebbe in modo istantaneo un notevole impulso all’incremento del reddito disponibile dei professionisti, consentendo anche di liberare risorse utili alle riconversioni e concentrazioni di risorse produttive in grado di dare maggiori possibilità di reddito al settore.
Ecco perché la riduzione dei contributi previdenziali minimi per chi ha bassi redditi non rappresenta una misura populista e demagogica, caratterizzandosi, al contrario, come il provvedimento più urgente da adottare per gli avvocati attualmete in difficoltà in Italia, per ragioni sia giuridiche che economiche.
Lo studio e la comprensione del presente articolo daranno diritto a cinque crediti formativi in materia obbligatoria.
Avv. Salvatore Lucignano