OLTRE LA DEMOCRAZIA: NEXT STOP, PREPARARSI A SCENDERE

4 Gennaio, 2017 | Autore : |

Gli elementi che mostravano il superamento della democrazia erano già tutti chiari. C’è chi parla degli anni 80, del processo che è cominciato dopo la caduta del muro di Berlino. Io credo che si continui a far finta di non vedere. Confini inesistenti, retorica statale insussistente, rottura del patto generazionale, ingiustizie, bulimia cazzoide, perdita di reddito e di lavoro e perdita di significato del lavoro, ed ancora… tanti, tanti altri segnali, inequivocabili, che quel modello di coesione uscito dalla seconda guerra mondiale stava esaurendo le sue possibilità di interpretare la contemporaneità.

 

Illustrare in un documento fruibile, ma allo stesso tempo esaustivo, una sorta di manuale pratico della nuova convivenza civile, quali siano le tantissime norme, giocoforza mutevoli e flessibili, che determinano il galateo riveduto della convivenza civile, sarebbe di fatto impossibile. E’ la funzione stessa del libro, che non è più adeguata a guidare i popoli, come accadde in passato per le opere dei grandi pensatori. Paradossalmente, tra le tante forme di destrutturazione del corpo sociale contemporaneo, quello delle guide ideologiche pone uno dei maggiori problemi all’agire pratico della collettività. Il cedimento degli ignoti, che tante volte ho citato come gravissimo sintomo di degrado culturale e politico, sta contribuendo a minare ciò che restava delle certezze assolute che devono necessariamente guidare l’agire dei popoli. Abbiamo giustamente perduto fede e fiducia nel progresso, siamo di fronte all’abisso e lo fronteggiamo. Questo non può darci la spinta per proseguire. Laddove sappiamo che ciò che ci riservano gli anni a venire saranno dubbi, paure, malessere e sacrifici, non possiamo più piegare l’edonismo capitalistico e consumistico ad una visione stoica del fine ultimo dell’agire comune.

 

Le vittime di guerra sono diventate un tabù. Morire in battaglia non è più onorevole, né auspicabile. Non combattiamo guerre da troppi, troppi anni, perché quella retorica, quel racconto, sempre più sbiadito, dei partigiani, lassù in montagna, possa ancora far presa sui giovani visitatori di youporn. E’ un destino ineluttabile, un’analisi per certi versi semplice, quasi puerile, per quanto sia immediata. Il fallimento del suffragio universale è un dato di fatto. Votano tutti, ma proprio tutti, e se fino al 1948 questo era un lodevolissimo elemento di avanzamento, probabilmente incontestabile, all’interno della logica positiva, oggi si assiste ad un ripensamento quasi doveroso. Oggi votano tutti, ma proprio tutti e non c’è verso di redimere una contraddizione devastante, perché basta guardarli, e pensarli, e immaginarli, quei milioni e milioni di sovrani dei nostri destini, per sapere che non vi sarebbe esito meno propizio che se ci affidassimo alle parche.

 

E’ la triste fine del mito dell’uguaglianza universale, base ideale della democrazia. Tutti gli uomini sono creati uguali, ma poi ci sono quelli che davvero diventano molto meno uguali degli altri. Eppure non si può dire, pena il passaggio immediato nella schiera dei malvagi, dei nemici del popolo. Un popolo che non è più in grado di rivendicare diritti e forme di organizzazione della propria struttura extracorporea favorevoli a condizioni di vita sostenibili. Siamo diventati tutti marziani, circondati da un ambiente ostile, tenuti in vita da piccolissimi mondi, all’interno di capsule monopersonali. Un piccolo intoppo, una provvista che manca e siamo irrimediabilmente morti. Si sgonfia il pallone, svanisce l’ossigeno, e diventiamo numeri, mangiati, digeriti, sputati da un contatore a nove zeri, che non fa sconti.

Il guaio è che non riusciamo a trovare le ragioni morali per dolercene. Uno, due, tre… segnano i bimbi che muoiono di fame mentre scrivo questo articolo. Quattro, cinque, sei… e ne avrò sicuramente tralasciato qualcuno. In quel tiro di schioppo, che separa i barconi carichi di pronti a tutto, dai visi pallidi, ex cattolici, buoni a nulla, c’è tutto il fallimento di quel concetto declinato un paragrafo fa.

Un’arida estate bianca: nessuno è veramente libero, se non siamo liberi tutti.

Ed allora siamo qui a chiederci, tra chili di troppo, che combattiamo senza convinzione, cosa possa mai spingerci a mentire a noi stessi, cosa possa farci credere che queste parodie di miti del buono, così piccini, così fragili, di fronte all’immensità del male che ci circonda, bastino a tacitare i nostri due etti e mezzo di quotidiana bonomia. Siamo divenuti i padroni di coscienze a corrente alternata, neon fiochi, led distanti, che zampettano, induriti, tra una sciagura e l’altra, tra una strage e l’altra, tra una irrilevanza e l’altra. Ci fanno credere che ciò che ci viene imposto sia necessario, anche quando non è altro che la corrispondenza ai desideri dei padroni. E noi? Ci crediamo. Cosa altro potremmo fare?

 

QUA, QUA, QUA.

 

Siamo paperi. Paperi starnazzanti, barcollanti, ossessionati da mitici oggetti di lusso, che abbiamo persino smesso di vagheggiare, prigionieri di orribili vestiti a buon prezzo, che non hanno più nemmeno una sola fibra del buon cotone di una volta. I paradisi naturali sono diventati sceMografie. Dovrebbe essere il contrario, dovremmo rifuggire le giungle d’asfalto e cemento, i muri di amianto e i venti di polveri nere, ma ci ritroviamo a deridere i cercatori di pace, perché sono quelli i mondi perduti, non i nostri. Corriamo così, appena possiamo, a drogarci di caos, di rimedi per l’acidità da sovralimentazione, di pornografia sempre più scadente.

 

Personalmente ho amici fidati, i miei pudori strani, la notte, la spossatezza e il silenzio, ai quali chiedo conforto, quando ormai, dismessi i panni dell’uomo nel mondo, osservo le luci fioche della città, le strade vuote, l’immobilità che prelude all’inutilità delle tensioni emotive. Dissipare noi stessi, buttarsi via, sprecarsi, è diventato talmente ordinario da non fare più notizia. Al contrario, realizzarsi, emanciparsi, costruire sensi compiuti, è un’opera di equilibrismo a cui non attende alcuna tattica. Manchiamo di perizia e di attrezzi consoni alla bisogna. Qualcuno ha detto che le grandi ideologie hanno scolpito nella storia il corso dell’umanità, che siamo stati per secoli come un fiume di uomini e donne, mossi dalla corrente dei sogni e delle aspirazioni che riuscivamo a materializzare.

Non so se sia vero, ma di certo, se tale è stato il cammino che abbiamo lasciato, non si può che parlare di un corso ormai prosciugato. Ridotti a ruscelletti che cercano invano una via, ma per i quali una pietra, un’ansa, una curva, valgono l’altra, non troviamo più un mare a cui tendere. Già, il mare, un tempo luogo estraneo alle leggi dei popoli terrestri, estremo rifugio dei nomadi del tedio, ma ormai impotente, di fronte ai mezzi troppo rapidi, ai GPS, ai droni, ai satelliti, ai telefonini che prendono, persino negli abissi oceanici.

 

La dimensione postmoderna è diventata una compagna fedele dell’espressione umana, in quasi tutte le sue forme. Non esiste praticamente nulla che sfugga a quanto è stato già detto e fatto. Nemmeno rimestare citazioni, creare diversivi intellettuali per eminenze colte e bizzarre, richiamare il diavolo e l’ignoto, risultano più in grado di creare chissà quali sorprese. Piccoli Stati, retti da governi basati su regole morte, si contendono la capacità di risultare credibili agli occhi dei cittadini, mentre tutto ciò che un tempo appariva fatto per durare mostra il fianco alla caducità del tutto. E’ il superamento della ragionevolezza, al suo meglio. La continua rappresentazione di una casualità non più spiegabile, capace di superare tutti i rimedi della letteratura e della filosofia. Il sacrificio, la provvida sventura, l’esempio, il martirio, l’eroismo, sono tutti prodotti scaduti. Persino la bellezza è finita in una sorta di cono d’ombra. Abbiamo perduto i Narcisi e gli Adoni, le Veneri e le Dee, per lasciarci circondare da mostri che mirano ad una vuota perfezione, dimenticando la sensualità dei difetti.

 

La caduta dei miti è stata inesorabile. La partizione dei poteri è stata ormai superata dall’avvento della cultura del web, ma prima ancora ci avevano pensato i dollari di Wall Street. La quasi totalità degli umani è nullatenente, mentre pochissimi umani posseggono quasi tutto. Ecco, basterebbe questo semplice sunto dello stato dell’arca, per comprendere quanto sia vano e vanitoso sperare nel bene. I muri sono tornati di gran moda, così le rotte dei velivoli che connettono i luoghi del pianeta Terra eviteranno di farli cadere in zone comandate da terroristi assetati di sangue. Nel mentre, proprio al centro di queste rotte contorte, il resoconto fedele della domenica calcistica assorbirà più neuroni di quanti ne siano mai stati dedicati a comprendere il senso della vita.

 

Quando abbiamo inventato il downshifting, quando finalmente ci siamo posti di fronte all’insensatezza del vero con animo folle e giocondo, qualcuno ha osato tacciarci di follia. Noi non siamo pazzi, non più di quanto lo siano i nemici di Socrate. Non corrompiamo infatti i giovani, non gli insegniamo a disobbedire alle leggi o a venerare divinità straniere. Al contrario, cerchiamo unicamente la verità. Una ricerca che mina, ma senza nostra colpa, le solide basi dei regnanti terreni, che crea i presupposti per una condanna alla cicuta, insensata, quanto si vuole, eppure già consumata. Il segno della croce è forse da meno?

 

Cosa starà pensando, lassù, quel genio sofferente e spogliato di ogni mistero, che seppure resta un Dio è ormai intriso di umanità? Se lo chiede il mio mancato battesimo, ma anche la nostra incapacità di aderire ai precetti più reclamizzati della storia. A 2016 anni dai fatti, decade più, decade meno, siamo ancora nemici delle donne, impegnati in una gara di sopraffazione che ci fa apparire insani, brutali, ridicoli.

 

All you need is love, cantava il maestro. All you need is love, cantavano i beatles. All you need is love, diceva Alberto Castagna.

 

Penitenziagite. Downshifting is the way.

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