RELAZIONE CONVEGNO PALAZZO SAN MACUTO 29 GENNAIO 2018
L’acuirsi della crisi economica sta scuotendo alle fondamenta la sostenibilità e quindi la credibilità dei sistemi previdenziali, così come pensati in epoca di espansione economica. Le gestioni previdenziali troppo spesso sono state in passato uno strumento piegato ad irresponsabili esigenze di espansione del consenso, innescando un circolo vizioso ed odioso, dove i padri hanno scaricato sui figli pesi intollerabili ed insostenibili. Questo terremoto, come era inevitabile, sta colpendo anche la previdenza dei liberi professionisti, compresi gli avvocati.
La legge 247/2012 ha costituito uno spartiacque che ha cambiato profondamente la relazione fra l’avvocato e la previdenza. Questa, in combinato disposto con la cd. Riforma Fornero e l’obbligo di sostenibilità a 50 anni dei conti degli istituti previdenziali di categoria, ha impattato in maniera incisiva nella quotidianità professionale dei duecentomila e passa iscritti all’Ordine degli avvocati italiani. In precedenza, l’obbligo di iscrizione a Cassa Forense scattava al superamento di determinati parametri reddituali ed anagrafici. Oggi, in conseguenza dell’articolo 21 della legge 247/2012, la mera iscrizione all’albo degli avvocati comporta l’obbligo di iscrizione a Cassa Forense. Inoltre, detta iscrizione comporta l’onere di una contribuzione insensibile, quanto al suo minimo, al reddito effettivo prodotto dal professionista. Detta impostazione riecheggia antichi istituti fiscali di stampo feudale, dolorosi ed iniqui, all’origine di grandi rivolgimenti nel corso della storia. Si parla di un vero e proprio testatico.
Per chi non lo sapesse, il testatico era un’imposta pubblica gravante sulle persone facenti parte di una comunità, comune, feudo, regno. Ogni individuo di età superiore ai 15 anni era tenuto a versare al sovrano del luogo una imposta annua calcolata in base alla popolazione e non al reddito, quindi uguale per ogni cittadino. Il nome testatico deriva da testa: in poche parole ogni testa era sottoposta ad essa. L’importo globale che ogni comunità doveva al signore del luogo era normalmente definito durante una funzione religiosa importante nella quale il sacerdote dal pulpito poteva contare le teste che vedeva nella chiesa, essendovi l’obbligo di partecipare ai riti religiosi. Da tale imposizione erano normalmente esenti nobili e il clero (che, d’altra parte, erano essi stessi esattori di diverse imposizioni sul popolo). Si trattava, comunque, di una forma particolarmente odiosa di tassazione, alla quale ricorrere come extrema ratio. Per esempio essa fu utilizzata dopo il 1369 da Edoardo III d’Inghilterra per sostenere gli elevatissimi costi derivanti dalla conduzione delle campagne militari della Guerra dei cent’anni. Nel 1381 la poll tax (questo il nome inglese del testatico) fu imposta in Inghilterra a tutti gli abitanti di età superiore ai 15 anni, indipendentemente dal reddito e dalla ricchezza. Ciò provocò una violenta rivolta da parte della classe contadina. A capo degli insorti vi furono Wat Tyler e John Ball, un appassionato frate predicatore che propagandava l’uguaglianza sociale denunciando lo sfruttamento signorile. Nel 1990 in Inghilterra con l’imposizione della “Community charge” (detta comunemente “poll tax”) da parte del governo Thatcher si rispolverò il testatico. Quanto di più iniquo fiscalmente immaginabile: chiedere conto all’uomo di un pane che non ha mai guadagnato.
Questo breve excursus serve per tornare ai nostri giorni, in cui la contribuzione minima slegata dal reddito, un vero e proprio abuso, contrario ai più elementari diritti costituzionali di progressività ed equità, viene protetto dai padroni del vapore con la collocazione dei contributi previdenziali al di fuori del perimetro dei tributi. In questo modo, con questo pietoso stratagemma, si tenta di considerare il prelievo contributivo alla stregua del mero risparmio, senza cogliere la contraddizione tra la coattività dell’imposizione e la sua insostenibilità, per impossibilità materiale ad onorarla.
Detta ricostruzione giuridica peraltro, mal si concilia con una realtà che vede la prestazione previdenziale, allo stato, come un’aspettativa soggetta ad un sensibile “delta di fatto”. Il contribuente del sistema è infatti esposto a continue “reformationes in peius”, operate in un quadro che il legislatore interpreta con la massima libertà, dettando norme giustificate dalle contingenze e tese a garantire equilibrio finanziario ed attuariale delle gestioni. In tal modo il potere fa il suo gioco, portando l’acqua al mulino dei baracconi previdenziali, sempre più in affanno ed alla ricerca di un riequilibro che li espone ad un’atavica e crescente fame di liquidità.
A tal proposito, Covip nella sua relazione ricorda in premessa come non si sia ancora concluso l’iter di approvazione del decreto che disciplini l’ investimento delle risorse finanziarie, di conflitti di interessi e di depositario degli Enti previdenziali privati che risultano quindi ad oggi gli unici investitori istituzionali affrancati da una regolamentazione unitaria in materia, regolamentazione che, ad esempio, è di livello primario e secondario per i fondi pensione, coerentemente con l’assetto definito a livello comunitario. L’auspicio è che quanto prima questo iter sia compiuto ed il regolamento pubblicato in gazzetta ufficiale.
Gli allarmi evidenti, per chi solo si soffermi a leggere, provenienti dalle istituzioni preposte alla vigilanza, ci restituiscono un quadro per nulla rassicurante in termini di affidabilità e sostenibilità futura della gestione di Cassa Forense (si vedano in particolare i dati in termini di Funding Ratio e, last but not least, di debito latente).
La giurisdizione, in maniera conformista, asseconda l’assetto descritto, avallando una ricostruzione degli istituti in oggetto palesemente distonica e poco coerente col quadro normativo generale.
L’atteggiamento di chiusura del management di Cassa Forense rispetto alle istanze di trasparenza provenienti dalla platea dei contribuenti rende senza dubbio il quadro ancora più allarmante e fosco. Basti pensare alla mancata pubblicazione, da parte della nostra Cassa, del report ALM, strumento di dibattuta utilità ai fini di un corretto monitoraggio dell’andamento gestionale, ma sicuramente elemento su cui non si può accettare alcun tipo di riserbo, non potendosi in alcun modo comprendere la renitenza dell’istituto di Via Visconti nel renderlo accessibile ai contribuenti. Emblematica a tal proposito la recente vicenda che ha visto Cassa Forense formulare una richiesta di circa € 1600,00 per l’accesso agli atti del bando per lo sviluppo economico dell’avvocatura all’istante, la collega di Bergamo Claudia Testa…
Infine, per quanto attiene ad un corretto rapporto tra istituzione e rappresentai, risulta del tutto insoddisfacente la tendenza a “fuggire” dai compiti statutari, manifestata negli ultimi anni da Cassa Forense. Sotto le note di una fanfara propagandistica vacua, tesa alla celebrazione del così detto “welfare attivo”, Cassa Forense si è avviata ad intraprendere iniziative incompatibili col profilo tipico di una gestione tesa a garantire ai suoi contribuenti le migliori pensioni possibili al minor costo possibile. Iniziative come l’investimento in “small cap” italiane non ben definite, operazioni come il fondo Cicerone, il tentativo di ingresso in “Atlante 2”, l’emissione di bandi per l’erogazione di contributi a realtà associative dell’avvocatura, contigue al sistema dell’istituzionalizzazione e spesso prive dei requisiti minimi di trasparenza ed affidabilità, ha allontanato fortemente la Cassa da quella che dovrebbe essere una gestione prudenziale e lungimirante, scevra da continui scivolamenti di natura politica. Questa tendenza è stata anche evidenziata dai rapporti Covip, che hanno auspicato il ritorno a forme di investimento più difensive, prudenziali e sostanzialmente coincidenti con la “mission” statutaria dell’ente, con esplicito invito ad incrementare l’impiego in obbligazioni statali ad alto rating.
Il bilancio della nostra Cassa è inoltre costellato di iniziative finanziarie ardite e dall’esito infausto. Qualcuno ha avuto il coraggio di rivendicare dette scelte come ineluttabili, per conseguire il fine di tentare il riequilibrio del sistema attraverso l’incremento del profilo di rischio. Estremizzando detto concetto, dovremmo avallare il comportamento del capo famiglia che punta tutto lo stipendio in scommesse, argomentando la scelta con la circostanza che lo stipendio stesso è insufficiente ai bisogni della famiglia?
E’ proprio in questo scenario, per nulla rassicurante, che nasce la forte mobilitazione che percorre l’avvocatura in questi mesi, nell’ambito della quale Nuova Avvocatura Democratica si è da subito caratterizzata come avanguardia.
Nell’estate del 2016 nasceva il gruppo facebook “No ad Atlante 2”, finalizzato a sensibilizzare gli avvocati italiani sull’imminente investimento di 500 milioni di euro di Cassa Forense nel fondo destinato a raccogliere gli NPL (Non Performing Loans), ovvero prestiti non performanti e dunque crediti altamente rischiosi, delle banche italiane in dissesto.
Il management di Cassa, presso le commissioni parlamentari competenti, manifestava ampia apertura alla partecipazione a quello che si preconizzava come un bagno di sangue finanziario.
Gli aedi del sistema invitavano a non disturbare il manovratore. In Cassa sapevano cosa fare. Ancora una volta andava in scena la nota vicenda, per cui il potere “sapeva” e il popolo, ignorante ed inadeguato, doveva fidarsi, possibilmente in silenzio.
“No ad Atlante 2” ha contribuito a sensibilizzare gli avvocati contro un’operazione scellerata. Cassa Forense, anche all’esito della forte pressione proveniente da tutta Italia, alla fine decise di desistere dall’investimento. La vicenda ha costituito un raro caso di sinergia virtuosa fra mondo associativo forense e segmenti illuminati dell’istituzione, che ha arrecato un enorme vantaggio alla categoria, quantificabile in svariati milioni di euro.
Nel mentre, volendo ripercorrere gli ultimi mesi, dando il senso della nostra storia recente, il grido di aiuto e dolore di una categoria schiacciata sotto il peso di una contribuzione insostenibile ed oltraggiata dall’essere deprivata anche del diritto di eleggere i propri rappresentanti si è fatto sempre più pressante.
Ebbene si, avete capito bene. Fra gli avvocati va in scena una vergogna contraria ai più basilari diritti politici della persona: nel sistema abbiamo rappresentati che contribuiscono, senza avere il diritto di essere eletti in seno al Comitato dei Delegati di Cassa Forense, necessitando l’avvocato di almeno cinque anni di iscrizione alla gestione per maturare il diritto all’elettorato passivo.
Questo è stato il clima che ha permesso a Nuova Avvocatura Democratica, in questa stessa sala, di organizzare un primo evento, teso a mettere in dubbio il dogma della mutualità obbligatoria. Un convegno che ha provato a suscitare una riflessione in merito alle possibili opzioni di maggiore flessibilità del sistema previdenziale italiano, in un’ottica capace di restituire reddito ai contribuenti più in difficoltà.
Successivamente, l’azione della nostra associazione non si è mai fermata, fino a portare in Cassa Forense quattro rivendicazioni, precise e sensate, che non hanno trovato alcun ascolto da parte dei vertici dell’istituto.
Il 21 aprile 2017 abbiamo invocato l’estensione dell’elettorato, attivo e passivo, a tutti gli iscritti alla Cassa forense. Abbiamo richiesto la pubblicazione dei verbali delle riunioni dei delegati, delle delibere, dei risultati delle votazioni all’interno del Comitato dei Delegati della Cassa Forense. Abbiamo invocato l’approvazione di una delibera che riportasse le indennità ed i gettoni previsti dalla Cassa Forense per i delegati al livello precedente all’ultimo aumento, ed infine, abbiamo osato chiedere l’istituzione di una commissione di studio interna a Cassa Forense, per l’analisi di un diverso sistema previdenziale, basato su: progressività e proporzionalità della contribuzione e revisione dei privilegi abusati dalle generazioni precedenti, oggi chiamati erroneamente diritti quesiti.
A tutte queste richieste, come già detto, la Cassa Forense ha opposto un inaccettabile e grottesco silenzio, che ci appare sprezzante, ma che dovrebbe anche portare i responsabili di tale atteggiamento ad un severo esame di coscienza.
Eppure la nostra associazione ha sottoposto queste istanze a tanti colleghi. Abbiamo fatto svolgere assemblee degli iscritti nei fori di Napoli, Nola, Reggio Calabria. Tutti i colleghi interpellati hanno approvato mozioni tese ad ottenere una contribuzione minima proporzionale al reddito e progressiva. Tutto ciò però, appare ancora insufficiente a far considerare una diversa prospettiva come elemento di confronto, confinando inevitabilmente l’interlocuzione tra iscritti e Cassa Forense, nella dimensione dello scontro.
Noi però non possiamo tirarci indietro. Il quadro delineato impone alla nostra generazione un impegno diretto, che possa incidere in maniera concreta sulle molteplici criticità evidenziate.
Abbiamo il dovere di prendere il nostro destino in mano, uscendo dalla retorica vacua del welfare attivo e delle magnifiche sorti e progressive di una gestione che è ormai radicalmente sconnessa dallo scopo di un assetto che preservi realmente gli odierni produttori di reddito. I “trattamenti regalo” di una parte di chi ci ha preceduti; il “dumping previdenziale” incarnato dai pensionati attivi; un’architettura del cursus contributivo orientata a trattamenti chimera, in relazione ai quali si pretendono contribuzioni slegate dal reddito effettivamente prodotto; impongono un radicale riassetto minimalista del sistema, che spezzi l’odiosa catena volta ad imporre pesi insostenibili, che si tramandano, dai padri verso i figli.
Non possiamo continuare a scaricare sulle future generazioni pesi che non competono loro così come non possiamo portare pesi che non siano frutto di scelte di equità e giustizia. Pertanto, Nuova Avvocatura Democratica esige che l’avvocatura italiana si concentri sull’obiettivo della sostenibilità quotidiana, optando per un sistema contributivo corretto che, allo stato, appare il solo modo possibile di mantenere in vita, con un senso accettabile, il concetto stesso e l’istituto della “pensione”. Occorre però agire in fretta. Tra i “fantasmi” che non presentano nemmeno il modello 5 e gli incapienti, tra i vessati e gli sconfitti, il libro dei sogni rischia di chiudersi bruscamente, con uno schianto memorabile. Tutto questo noi non possiamo permettercelo.
Roma, 29 gennaio 2018
Avv. Giuseppe Fera – Tesoriere Nazionale di Nuova Avvocatura Democratic