Per due anni l’Organismo Unitario dell’Avvocatura ha lavorato alla sua fine, senza che nessuno degli 88 componenti di tale Organismo organizzasse una minima attività di opposizione allo strapotere del sistema ordinistico. Per quasi quattro anni, dall’approvazione della legge professionale forense ad oggi, i mali dell’avvocatura italiana si sono ingigantiti: povertà materiale e morale, perdita di rappresentatività delle istituzioni forensi e clientelismo, corruzione e cooptazione come mezzi di selezione delle classi dirigenti della categoria.
Il declino della professione forense è inarrestabile, favorito da un circuito cerimoniale che non intercetta il sentire di una classe che non c’è, ma supportato anche dall’oggettiva difficoltà di un disegno politico alternativo a porsi come tale, con numeri, consensi e programmi capaci di generare un cambiamento possibile.
La vicenda di OCF e del XXXIII Congresso Nazionale di Rimini non può dunque essere vista come qualcosa di atipico nella storia recente della professione forense italiana. L’imperizia e l’inettitudine della fazione “vincente” era già nota ed aveva ampiamente dato prova della propria incapacità, così come era nota e rodata la tendenza a scansarsi da parte di soggetti politici che avrebbero dovuto farsi portavoce di interessi diversi e contrapposti, rispetto a quelli dei padroni delle nostre istituzioni.
Mancano le basi, la cultura, la tensione ideale e la volontà di costruire soggetti inclusivi. Regna l’arbitrio, l’approssimazione, e conoscenze tecniche e giuridiche che farebbero rabbrividire un collega dalle doti anche modeste. Il dramma è che tutto ciò non manca solo nella tanto vituperata “base”, ma ancor di più è carente nei vertici, politici ed istituzionali, dell’avvocatura italiana.
Il richiamo in vita di un Organo facente riferimento alle norme e all’esperienza dell’OUA, operato dal Presidente del Consiglio Nazionale Forense, segna forse il punto di massimo smarrimento di una categoria che ha un disperato bisogno di uomini, ma non li trova e ormai, stancamente, comincia persino a smettere di cercarli.
Addossare ad Andrea Mascherin tutto lo sfascio che vivono gli avvocati italiani non sarebbe onesto: l’uomo non è capace, non avrebbe gli strumenti, né culturali e men che meno intellettuali, adeguati a svolgere alcun ruolo all’interno di un’avvocatura che volesse affidarsi a giuristi degni di tal nome, ma i componenti della corte dei miracoli che a Rimini, tra il 6 e l’8 ottobre, si sono avvicendati sul palco del Congresso Nazionale, fino a cantare vittoria per la creazione del mostro che già si sfalda, sotto il peso della propria inconsistenza, non sono certo da meno.
Ci vuole cultura per essere un buon avvocato. Cultura e competenza, e nelle istituzioni italiane non vi è alcuna traccia di entrambe.
Ebbene, il tempo sta svolgendo silenziosamente il suo lavoro. Ciò che aveva ancora parvenza di vita volge alla morte, coloro che recitavano il ruolo di protagonisti presto si accorgeranno di essere delle inutili comparse e tutti coloro che credono che le vicende della nostra professione non li tocchino, stanno già vivendo sulla propria pelle il dramma della povertà e della disperazione.
I processi collettivi si muovono spesso in modi che una visione parziale non coglie e non vede, ma raramente si lasciano imbrigliare da azioni deboli, incapaci di costruire dighe possenti e tali da deviare il corso di placidi e inarrestabili fiumi.
OCF non è che l’ennesimo fallimento del regime dell’istituzionalizzazione forense. Non è certo il più ridicolo o drammatico. Non è stato il primo e di certo non sarà l’ultimo. Continueranno a fallire e daranno sempre maggiori prove della propria inadeguatezza. La domanda che si impone è forse una sola: fino a quando?