Nei giorni scorsi avevo indicato ai colleghi la pubblicazione del rapporto CEPEJ 2016, sostenendo l’importanza che gli avvocati italiani conoscessero alcuni dati comparati, affidabili e significativi, utili a smentire alcuni falsi miti che circolano nel nostro ambiente. Ho atteso, per valutare se qualcuno o qualcosa fosse in grado di svolgere una riflessione sui dati oggetto dell’ultimo rapporto, ma ovviamente… ho atteso invano.
I dati del rapporto CEPEJ 2014, per quanto riguarda gli avvocati, mostravano due elementi di fondamentale preoccupazione per chi volesse svolgere seriamente la politica forense, come strumento di analisi, volta a proporre leggi in grado di tutelare la nostra categoria. La prima, riguardava il numero di avvocati, in Italia ed in Europa. La seconda riguardava il monopolio della rappresentanza legale degli avvocati dinanzi alle Corti di giustizia dei paesi europei. Il rapporto CEPEJ 2016, facente riferimento ai dati del 2014, mostra in modo impietoso due elementi, che riguardano l’Italia, in grado di spiegare il perché dell’ecatombe che si sta abbattendo sulla nostra categoria. Allo stesso tempo, spiega chiaramente (per chi abbia occhi per vedere ed anima per ascoltare la coscienza), cosa non è stato fatto e cosa c’è da fare, se si vuole che nei prossimi anni la crisi della professione forense in Italia non generi un disastro sociale ancora maggiore di quello già in atto, avvertito con forza dai nostri colleghi.
IL NUMERO DEGLI AVVOCATI
Questo tema è per me assai doloroso da affrontare. Senza farne un elemento di vanto, ma al contrario, con profondo rammarico, devo constatare di essere probabilmente l’unico avvocato in Italia che fa di una restrizione ai nuovi accessi alla professione forense l’elemento principale, fondamentale, indifferibile, che andrebbe posto alla base di una seria politica di rilancio della nostra professione. Ovviamente la propaganda di regime, aiutata da molti avvocati, che per interesse o per miopia, guardano a questo concetto come ad una bestemmia, impedisce che il tema venga affrontato, con decisioni drastiche, immediatamente operative.
Uno degli elementi della propaganda è quello che parifica una restrizione ai NUOVI accessi, con provvedimenti in grado di incidere su chi è già abilitato all’esercizio della professione. Nulla di più falso: una restrizione ai nuovi accessi, sarebbe invece una misura di salute pubblica, sia per chi è già avvocato che per la giustizia. Si consentirebbe una diminuzione del numero di avvocati, graduale nel tempo, che potrebbe riequilibrare domanda ed offerta di lavoro, dando la possibilità a chi oggi è schiacciato dalla crisi, di poter continuare a svolgere la professione in condizioni dignitose. Il tutto avrebbe ovviamente effetti assai positivi per la riqualificazione della categoria.
Una delle obiezioni più ridicole a queste doverose considerazioni è la più classica delle idiozie, quel “non è vero che gli avvocati sono troppi”, che ancora decine di migliaia di avvocati italiani sostengono, senza ovviamente avere la minima idea di ciò di cui parlano. Lasciamo dunque che parlino i numeri, analizzando le due sole statistiche di cui si preoccupa il rapporto CEPEJ 2016, parlando di avvocati, che sono proprio, guarda caso, il numero degli avvocati e la situazione di monopolio della rappresentanza in giudizio che essi vivono nei paesi europei.
Fig. 1. Il numero di avvocati in Europa.
Fig. 2. Il numero di avvocati in Europa, media, minimi e massimi.
Ecco, soffermiamoci sui dati, quelli veri. Il numero di avvocati che patrocinano dinanzi alle Corti, vede un dato incontrovertibile. Nel 2014 l’Italia era il paese con il maggior numero di avvocati in Europa. Nemmeno argomenti propagandistici, che miravano a sottostimare l’enormità della pletora di professionisti presenti nel nostro paese, cercando di appigliarsi a numeri che non ci vedessero in cima al disastro, trova scampo nella impietosa realtà fotografata da CEPEJ 2016. Non i secondi, i terzi, o qualcosa del genere. I primi, in Europa e probabilmente al mondo, se si tenesse conto di una media ponderata tra numero assoluto di avvocati e rapporto numerico con i cittadini.
Fig. 3. Numero di avvocati in Europa ogni 100 mila abitanti.
Fig. 4. Numero di avvocati in Europa ogni 100 mila abitanti. Media, minimi e massimi.
Anche questa statistica toglie ogni alibi ai sostenitori del “non è vero che in Italia ci sono troppi avvocati”. Il massimo rapporto tra avvocati e cittadini si riscontra in Grecia, ma anche qui, occorre fare un’analisi qualitativa del mero dato numerico. La Grecia è un paese composto da molte isole, che per certi versi rappresentano realtà non comunicanti. Questo fa si che la capacità degli avvocati presenti nel paese di agire su un territorio vasto, sia limitata dalla morfologia del territorio stesso, consentendo un maggior radicamento di professionisti nelle varie realtà locali. In secondo luogo, il numero assoluto degli avvocati greci, nel 2014, ammontava comunque a 42.052 unità, a fronte dei 223.842 patrocinanti italiani. Grandezze non paragonabili, che danno luogo a flussi e fenomeni di accaparramento e depauperamento, completamente diversi nei due mercati.
Pur tenendo conto di queste considerazioni, l’Italia, con 368 avvocati ogni 100 mila abitanti, è il paese di grandi dimensioni che ha la media di gran lunga più alta, in questa particolare statistica. Escludendo realtà come Cipro, Lussemburgo, Israele, se si prova a paragonare il dato italiano con quello di paesi dalle dimensioni e caratteristiche simili, si ottiene un quadro sconfortante:
Italia 368
Francia 94
Germania 202
Spagna 291
Regno Unito (Inghilterra e Galles) 315.
Fatto 100 il dato francese, se si vuole tenere presente quel paese come parametro del miglior rapporto tra domanda ed offerta di prestazioni legali, i dati di questi cinque paesi europei, costituenti l’ossatura dell’Europa occidentale, sono i seguenti: l’Italia ha il 391% del rapporto francese tra avvocati e cittadini, a fronte del 214% tedesco, 309% spagnolo e del 335% inglese.
Si provi ora a fare un semplice ragionamento, dato da un confronto numerico, non qualitativo. Si immagini che la domanda di prestazioni legali in un dato paese sia pari ad un certo numero di prestazioni, definito X. Si immagini che tali prestazioni si debbano suddividere tra un numero di prestatori d’opera Y. Nel nostro caso tali prestatori sono gli avvocati. Ora, si immagini che il rapporto tra prestazioni e prestatori d’opera, ovvero tra domanda ed offerta di servizi legali, sia indipendente da altri fattori che non siano il numero di prestazioni richieste ed il numero dei professionisti in grado di rispondere a tali richieste. Naturalmente, si immagini che il volume d’affari e conseguentemente il reddito dei professionisti che offrano risposta a tali richieste, che chiameremo Z, sia dipendente unicamente da una suddivisione del “lavoro” tra i vari professionisti.
Questo è ovviamente un “sistema” molto semplificato, ma non irrealistico, che può parzialmente spiegare come il numero di avvocati, fatalmente, agisca sul fatturato degli stessi. Considerato X detto numero, Y il numero di prestazioni richieste e Z il valore del reddito prodotto da tali prestazioni, questo semplice “sistema”, offre risultati apprezzabili, se si prova a considerare la variabile Y come una costane, e si fa variare unicamente il valore di X, ovvero del numero di avvocati presenti nel sistema. Questa variazione può portare a definire il reddito disponibile per ciascun avvocato, tralasciando altri fattori.
Ipotizziamo dunque che ciascun paese di questo sistema generi 1 milione di richiesta di prestazioni legali nell’unità di tempo analizzata (che possiamo considerare sia un anno, per convenzione). Ipotizziamo che ogni prestazione richiesta agli avvocati presenti nel sistema generi un reddito netto pari ad 1 euro, per un reddito complessivo a disposizione degli avvocati di quel sistema che sia pari ad 1 milione di euro all’anno. Come si divideranno i redditi, in base al mero numero di prestatori d’offerta, secondo il nostro rudimentale sistema? Ecco il risultato di questo “gioco”:
Italia: 4,5 euro pro capite
Francia: 16, 1 euro pro capite
Germania: 6,1 euro pro capite
Regno Unito: 5,5 euro pro capite
Spagna: 7,4 euro pro capite.
Si tratta ovviamente di numeri che tengono conto di parametri convenzionali e non corrispondenti alla realtà dei singoli paesi, ma se si coglie il senso della rappresentazione, a parità di ricchezza disponibile per gli avvocati, nei cinque paesi che abbiamo analizzato, una divisione equa di questa ricchezza, offrirebbe ad un avvocato francese un reddito annuo 4 volte superiore a quello di un collega italiano: in pratica il 400% del nostro reddito disponibile. Per un tedesco ci sarebbe quasi il 150% di reddito disponibile in più rispetto al nostro. Quasi il 175% sarebbe a disposizione di un collega spagnolo, mentre un avvocato inglese, che pure dovrebbe “dividere” il reddito a disposizione della categoria con un gran numero di “contendenti”, guadagnerebbe mediamente il 120% di quanto guadagnato da noi italiani.
Considerazioni astratte? Solo in parte, ma comunque sufficienti a far comprendere come l’andamento del numero di avvocati sia fondamentale per capire la crisi reddituale dell’avvocatura italiana e come le considerazioni di chi si ostina a ritenere che gli avvocati italiani non siano “troppi”, non tengano conto di elementari considerazioni di mercato, che anche un modesto studente liceale potrebbe affrontare, senza destare scandalo.
IL MONOPOLIO DELLA RAPPRESENTANZA LEGALE DEGLI AVVOCATI EUROPEI
Come ho già scritto, nel 2015, quando ho tradotto e studiato il rapporto CEPEJ 2014, mi sono soffermato su una considerazione qualitativa, che ho sottoposto – come sempre invano – alle istituzioni forensi italiane. Feci notare che uno degli elementi che poteva essere raccolto dalla politica italiana, stante il quadro e le direttrici operative europee, era quello che riguardava il monopolio della rappresentanza legale presso le Corti di giustizia. Un fattore che vedeva e vede l’Italia e gli avvocati italiani massimamente favoriti dall’attuale assetto legislativo rispetto ai colleghi europei.
Spiegai che, se per nostra sfortuna i politici italiani, ansiosi, quasi “smaniosi” di ridurre il contenzioso presente nel paese e di sottrarlo alle “voraci” fauci di noi avvocati, avessero studiato il rapporto CEPEJ 2014, le norme tese a sottrarci ambiti esclusivi di operatività non si sarebbero fatte attendere, contribuendo a rendere ancora più insostenibile il rapporto spropositato tra avvocati e cittadini italiani.
Come troppo spesso mi accade, visto che si tratta quasi sempre della realizzazione di previsioni infauste per noi avvocati, fui facile, facilissimo profeta. A quelle mie considerazioni seguirono le norme sul divorzio cosiddetto “breve”, che di fatto hanno reso spesso superfluo il ruolo dell’avvocato nelle procedure di divorzio. Un trend che purtroppo può solo peggiorare, stante una situazione che il rapporto CEPEJ 2016 fotografa, con impietosa oggettività. Questa è infatti la situazione europea per ciò che attiene al monopolio della rappresentanza legale degli avvocati in giudizio:
Fig. 5. Monopolio degli avvocati europei nella rappresentanza in giudizio.
Fig. 6. Monopolio degli avvocati europei nella rappresentanza in giudizio. Situazione comparata.
Un’analisi dei dati mostra subito alcuni elementi interessanti: in primo luogo il numero di paesi in cui gli avvocati detengono un monopolio “assoluto” nella rappresentanza processuale, secondo i parametri utilizzati dalla Commissione CEPEJ, è “solo” di 14 e l’Italia è tra questi. Quali considerazioni porta questo dato? Semplice: il monopolio dell’avvocato in giudizio non è lo standard operativo europeo e dunque, soprattutto in quei settori in cui si vuole andare verso l’utilizzo di ADR, o comunque di procedure che riducano il fenomeno “contenzioso” statale, vi sarà una sempre maggiore riduzione di agibilità esclusiva degli avvocati. Le considerazioni della Commissione CEPEJ del resto, non mancano già di sottolineare tale aspetto:
CONSIDERAZIONI FINALI
La conoscenza e lo studio della professione forense, in Italia e in Europa, sono elementi indispensabili alla consapevolezza che un avvocato dovrebbe possedere, quale parte del proprio bagaglio culturale. Perché ciò possa realizzarsi, è fondamentale che le analisi comparate sulla professione forense, siano massimamente conosciute, elaborate e dibattute dalle istituzioni forensi. Il regime dell’istituzionalizzazione forense ignora questo aspetto, favorendo la diffusione di credenze, all’interno dell’avvocatura italiana, paragonabili a quelle che nel medioevo davano luogo ai roghi degli impuri. La più perniciosa di queste “credenze” è che non sia vero che gli avvocati italiani siano troppi, che non rappresentino un elemento ormai insostenibile per il mercato delle prestazioni legali, con gravi ricadute sulla qualità della giustizia, oltre che sulle vite di molti, troppi colleghi affamati e proletarizzati. Mi auguro che questa breve indagine, in cui ho presentato dati e fatti, possa contribuire a smentire questa risibile credenza, portando la professione forense italiana, nel suo complesso, a ragionare con maturità sui numeri capaci di garantirle una concreta sostenibilità.