Recentemente abbiamo assistito ad un accesa polemica sul contenuto delle vignette di Charlie Hebdo, inerenti i danni prodotti dalle scosse sismiche che hanno colpito alcuni comuni del centro Italia. Ma fino a che punto il “diritto di satira” può spingersi? Facciamoci aiutare dall’Avv. Salvatore Lucignano, provando a delineare i contorni politici di questo episodio.
Caro Salvatore, ho letto della polemica sulle vignette di Charlie Hebdo, in cui ti sei lanciato con la tua nota verve, non disgiunta dall’uso di un linguaggio che spesso è stato sopra le righe. Insomma: quelle vignette sono satira o no?
Caro Giulio, la polemica è stata feroce perché quelle vignette meritavano a mio parere una risposta feroce. La mia risposta è netta: no, quella non è affatto satira ed esistono precise ragioni, logiche, giuridiche, sociali, per cui non ritengo affatto che sia possibile sostenere il contrario, senza poter sostenere che satira sia “tutto ciò che si vuole… e più non dimandare”.
Proviamo a scoprire queste ragioni. Partiamo da un concetto fondamentale: chi difende quelle vignette si richiama alla libertà di espressione e di opinione. Pensi che esistano dei limiti che vadano imposti a questa libertà?
Assolutamente no. Io sono convinto che i reati di opinione non esistano e non debbano esistere. Non credo affatto che quei vignettisti vadano limitati perché pubblicano robaccia, ci mancherebbe. Sono però un convinto assertore della differenza tra libertà ed arbitrio. Libertà non vuol dire: posso fare ciò che mi pare, sempre e comunque. Esistono dei confini alla libertà del pensiero, che a mio parere non devono portare a reazioni punitive, ma che certamente legittimano una risposta critica fatta di pensiero contrapposto, tutto qui.
Però in questa reazione critica tu inserisci anche la legittimità dell’offesa e l’uso del turpiloquio. Non è una contraddizione?
E perché mai? Ogni giorno la comunità usa termini insultanti per uomini e donne colpevoli di azioni ed opinioni generalmente riprovevoli e nessuno crede di limitarli. L’offesa ed il turpiloquio fanno parte della polemica, la loro legittimità è fuori discussione, proprio per il principio di libertà di espressione, quando è calato nella polemica, ancor più se fatta a mezzo di iperboli. Il grande Vittorio Sgarbi ci taccia ogni giorno di essere “capre” e anche peggio, ma nessuno di noi si sognerebbe di ritenere illegittimo quel tipo di linguaggio. Che ci piaccia o no è altra cosa. Io non miro a piacere a tutti: sarebbe una dimostrazione di superomismo che non mi è mai appartenuta.
Secondo molti quelle vignette sono satira, perché mirano a farci riflettere su problemi reali, stimolano dibattito, discussione, e dunque centrano il proprio scopo. Come rispondi?
E’ un’argomentazione insussistente sul piano logico e la trovo puerile su quello politico. E’ un rimandare la qualificazione di ciò che si manifesta in pubblico alle intenzioni sbandierate dal manifestante e non al sentire di chi è vittima di quelle manifestazioni. La società non agisce in questo modo ed è grottesco che per la “libertà di satira” si pretenda di agire così. Andare a fare “marameo” davanti ad un pubblico ufficiale non è libertà, ma arbitrio. La società censura le nostre azioni quando hanno implicazioni con gli altri. Quelle vignette usano i morti e pertanto non li rispettano. Il razzismo e le provocazioni contro l’Italia e gli italiani contenuto in quelle vignette non ha nulla di sottile, intelligente, verosimile. Non c’è alcuna riflessione, nessuna catarsi data dal sorriso. Quella non è satira: è immondizia, becere provocazioni, sciacallaggio che sfrutta i morti per farsi pubblicità. Non è la qualificazione data dagli autori il metro da usare per dare un nostro parere, ma un’analisi degli elementi percepiti dalla società. In caso contrario… tutto potrebbe essere satira, se io dicessi che lo è.
Tu però non puoi essere il metro di ciò che non è satira, esattamente come Charlie Hebdo non può esserlo per quanto riguarda ciò che è satira. Usando la tua stessa logica si giunge a questa conclusione: giusto?
Il dubbio iperbolico segna il discrimine tra il relativismo e il solipsismo. Tutto è relativo e questo è chiaro. L’assoluto non esiste. All’interno del relativo si lotta dialetticamente per esprimere ciò che rappresenta il sentire comune all’interno di gruppi sociali, in determinati momenti storici. Dire che lo sciacallaggio e la mancanza di rispetto verso il sentimento di dolore per il sisma che ha colpito il centro Italia non è satira non vuol dire esprimere un assoluto, ma contribuire a tracciare i confini che separano i tanti relativi che interagiscono tra di loro. Diversamente, se ci rifugiamo nel relativismo assoluto, scadiamo in penose forme di trastullo intellettuale.
“Non mi piace ciò che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu lo possa dire”. E’ un principio sempre valido o dobbiamo rivederlo, alla luce di questa polemica?
Io non ho mai sostenuto che a Charlie Hebdo vada tolta la libertà di spargere quella robaccia. Loro hanno il sicuro diritto di farlo ed io ho il sacrosanto diritto di esprimere lo sdegno più forte verso il loro operato.
Molti italiani erano stati Charlie dopo l’attentato al giornale. Oggi non si sentono più Charlie. C’è chi li accusa di aver cambiato opinione solo perché è cambiato l’oggetto della satira. E’ così?
E’ un altro elemento illogico di questa polemica. Chi era Charlie dopo l’attentato al giornale parigino, si immedesimava nella vittima ingiusta di un attentato ingiustificabile. Essere Charlie allora voleva dire: “nessuno può morire perché ha disegnato una vignetta, questa violenza non può trovare alcuna giustificazione”. Io non usai quel concetto di immedesimazione allora, ma esso resta inattaccabile. Essere Charlie non vuol dire avallare ogni porcheria pubblicata da quel giornale, solo perché definita “satira” dagli autori. In questo senso io rivendico orgogliosamente di non essere Charlie ora, esattamente come non volli esserlo allora. Ferma condanna alla violenza omicida, ma altrettanto ferma condanna allo sciacallaggio pubblicitario dei vignettisti francesi.
In definitiva non ci siamo spostati dalla domanda iniziale, perché tutto può essere opinabile, quando siamo sul piano dell’espressione di opinioni. Chi o cosa può imporre un criterio oggettivo a cui conformarci?
Un meraviglioso film italiano: “Il mistero di Bellavista”, celebra l’uomo come la misura di tutte le cose, incluso ciò che è arte o non è arte, con una celebre scena, in cui si discute del valore artistico dell’arte moderna. I protagonisti si chiedono della reazione di un muratore del 3000 di fronte al ritrovamento di due “opere d’arte”: un dipinto di Luca Giordano ed una stanza da bagno attaccata ad una parete. Tutti, pur facendo riferimento all’uomo “misura”di tutte le cose, concordano che nulla consentirebbe al muratore del futuro di distinguere la stanza da bagno “artistica” da un normale bagno in rovina. Alla domanda “è arte o non è arte?” si può e non si può rispondere, esattamente come alla domanda: “è satira o non è satira?” Ognuno di noi è la risposta e quindi la domanda resterà per sempre con miliardi di risposte e con nessuna.
Si ma lo Stato, il diritto positivo, ha o no il potere ed il dovere di superare il relativismo delle opinioni, per dettare norme imperative capaci di regolare questa libertà di espressione?
Come ti ho già detto a mio parere non possono esistere reati di opinione. Ritengo giusto punire la diffamazione, sul piano risarcitorio, quando si attribuiscono fatti e atti concreti e falsi determinate persone. Sono per la massima libertà di espressione quando ci si muove nell’ambito della critica politica o sociale. In questo senso non vedo elementi di punibilità nelle vignette di Charlie Hebdo da parte di uno Stato che voglia dirsi liberale, ma di certo continuerò a stroncare ferocemente quel tipo di manifestazione di “libertà”.