Comprendere il futuro ed anticiparlo, vuol dire spesso combattere con il passato, che non ne vuol sapere di abbandonare il presente.
Quando abbiamo fondato NAD ci è stato chiaro che il nostro obiettivo sarebbe stato realizzato all’interno di una concezione della professione che si poteva e doveva muovere totalmente al di fuori dell’autoritarismo e dei valori arcaici che hanno dominato questi anni bui.
La legge professionale forense è un’oscenità, un testo vigliacco, illegittimo, iniquo. Contro un tale scempio l’unica scelta che da giuristi ci è concessa è di disobbedire, fino a quando non potremo abolire uno schifo che viola e mortifica le prerogative di un avvocato contemporaneo.
Non possiamo più essere i grigi soldatini, pomposi ed autoreferenziali, su cui pioveva addosso il lavoro, legale o illegale, ricoprendoci d’oro e lasciandoci liberi di fregarcene del governo della nostra professione. Questo modello di avvocatura, baronale, snob e corrotta, ma salvata dal denaro, si fondava su una primazia e sulla necessità del sapere messianico, che oggi sono letteralmente svanite, spazzate via e destinate ad essere ricordate unicamente come la preistoria della professione forense.
In tutto il mondo i servizi legali evolvono verso una visione imprenditoriale, dovendo tentare di coniugare due aspetti che possono essere in forte conflitto tra di loro: la difesa dei diritti e degli interessi dei cittadini, con la tutela del reddito del professionista legale.
In pochissimi hanno una vaga idea di come la dicotomia tra difesa degli altri e di se stessi abbia dominato la storia delle professioni ordinistiche, allo stesso modo di come ha fatto con l’artigianato e con le imprese commerciali. L’avvocato deve lottare per gli altri, ma può farlo solo se è in grado di lottare per sé. Allo stesso tempo, in un mondo che rinuncia sempre più spesso ad affidare al diritto la lotta per gli altri, evolvendo verso una concezione mobile dei punti di equilibrio sociale, distante anche dalla politica e sempre più affidata al costume ed al sentire dominante dei gruppi, restare ancorati alla figura statica dell’avvocato equivale a morire.
E’ questa la ragione per cui l’avvocatura italiana, il suo impianto legislativo,la sua struttura istituzionale, non possono che generare disobbedienza e scherno in qualsiasi professionista voglia operare ed allo stesso tempo interessarsi dell’assetto professionale. Il paradosso dell’affermazione è che gli avvocati ricchi ed integrati nel futuro si tengono alla larga dalla regolamentazione del presente. Essi pensano a fare soldi, lasciano che le vetuste e patetiche pantomime valoriali siano appannaggio del Consiglio Nazionale Forense. Come ho già scritto molte volte, manca del tutto un contatto tra ciò che genera valore ed i valori di fondo che possano legittimare socialmente tale agire.
Una delle evoluzioni previste dal pensiero marxiano in ambito lavorativo riguarda l’alienazione dell’attività lavorativa, la sua perdita di connotazioni valoriali proprie, per arrivare a divenire mezzo meccanico di produzione di reddito, mediante la reiterazione dell’attività. In barba a tutte le favole raccontate dalla Cosa Nostra istituzionalizzata, l’avvocatura italiana è questo, ormai da anni, e continua a cedere terreno, sia sul terreno dei valori che su quello del valore. Gli avvocati italiani, nella gran parte dei casi, sono sopravviventi, agiscono per procurarsi il cibo, ma non sono in condizione di partecipare da protagonisti ai processi di sviluppo sociale e politico del paese, ovvero, quando sarebbero in condizione di farlo, se ne guardano bene, preferendo continuare a fare affari.
E’ questa una delle ragioni per cui il governo, la guida e lo sviluppo dell’avvocatura è ormai da tempo affidata a menti labili, a rifiuti, ai reietti, ai più incapaci. E’ il trionfo della selezione inversa e la piena affermazione della mediocrazia.
In un simile scenario, profondamente deteriorato, far comprendere gli sviluppi della fenomenologia giuridica, offrire modelli operativi in grado di coniugare la dicotomia storica che si portano dietro le professioni ordinistiche, appare un’impresa titanica.
Il rischio è che l’analista si specchi nella propria capacità di descrizione dell’esistente, dimenticando che l’agire politico è valido, sul piano etico, solo quando non si limita a prendere atto della tragedia, ma si muove per cercare di superarla.
Al Congresso Nazionale di Rimini, tenutosi tra il 6 e l’8 ottobre 2016, NAD ha cercato di indicare la via, nonostante essa sia visibile solo ad una manciata di avvocati italiani. Abbiamo spiegato che il parlamentarismo è l’unico modello politico e rappresentativo capace di guidare la classe forense verso il futuro. In altri termini, l’avvocatura italiana non ha alcuna speranza di diventare un soggetto politico, e dunque un corpo sociale, se non abbraccerà lo schema di rappresentanza illustrato da NAD, fondato sul parlamento e sul governo dell’avvocatura.
Il parlamento dell’avvocatura italiana dovrà essere eletto a suffragio diretto, da tutti gli avvocati e dovrà godere di potestà politica illimitata, per quanto atterrà alle scelte riguardanti la professione forense. Il governo dell’avvocatura dovrà avere ministri esperti, che si possano occupare dei vari settori che interessano la professione, superando l’attuale moltiplicazione dei centri di spesa e di potere della classe forense. Uno schema di governo della classe forense, ipotizzando ovviamente che ogni ministero abbia una struttura a supporto del lavoro da svolgere, potrebbe essere il seguente:
- Ministro per gli affari penali;
- Ministro per gli affari civili;
- Ministro per l’innovazione tecnologica;
- Ministro per la previdenza forense;
- Ministro per la giovane avvocatura;
- Ministro per i rapporti internazionali;
- Ministro per l’elaborazione normativa;
- Ministro per gli affari sociali;
- Ministro per le normative professionali;
- Ministro per i rapporti con la giustizia;
- Ministro per le pari opportunità;
- Ministro per le amministrazioni locali.
Uno schema di governo che veda una suddivisione dei compiti organizzata secondo questo schema, consentirebbe di abolire il Consiglio Nazionale Forense e la Cassa di Previdenza Forense, concentrando il potere delle scelte di categoria nelle mani di pochi colleghi, guidati da un premier che rappresenti la professione forense. Il tutto, parlamento, congresso, governo e premier, eletti ogni quattro anni, con possibilità di sfiducia da parte del parlamento, che dovrebbe essere composto da non più di trecento avvocati, scelti mediante la suddivisione dell’Italia in collegi.
I lavori del parlamento dell’avvocatura si dovrebbero svolgere a Roma, con riunioni settimanali, mentre il governo dovrebbe potersi riunire ogni volta che sia necessario. Fondamentale sarebbe la previsione di conferenze telematiche che possano scandire il lavoro dei ministeri.
In un tale impianto, i Consigli circondariali dell’Ordine, drasticamente ridotti, nel numero e nel numero dei propri componenti, dovrebbero assumere funzioni del tutto indipendenti dalla politica forense. Tra i Consigli ed il parlamento dell’avvocatura non dovrebbe esserci nessuna commistione possibile.
I parlamentari dell’avvocatura dovrebbero godere di rimborsi spese, mentre i membri del governo di categoria dovrebbero godere di modeste indennità di funzione, tali da consentire anche ai percettori di redditi inesistenti, di sopravvivere durante l’esercizio del mandato. Un limite oggettivamente ragionevole per i membri del governo potrebbe essere di euro millecinquecento nette mensili.
Un parlamento ed un governo costruiti secondo questo schema costerebbero all’avvocatura meno di quanto attualmente costano il Consiglio Nazionale Forense, la Cassa Forense e l’Organismo Congressuale Forense messi insieme, ma consentirebbe di ottenere finalmente uno straordinario avanzamento politico, culturale e democratico della professione forense, facendola balzare nuovamente agli onori delle cronache, proponendo in tal modo una funzione elitaria, sul piano della compilazione normativa e dell’elaborazione culturale, e superando l’autoritarismo e l’affarismo connaturato all’assetto istituzionale attualmente padrone della professione forense.
La riduzione dei costi di gestione, l’annullamento delle varie voci legate alla propaganda di regime, l’unificazione dei centri spesa in un unico soggetto, costituito dal sinolo parlamento-governo forense, genererebbe enormi risparmi, massima possibilità di trasparenza, affermazione di un modello in grado di tacitare i dissenzienti, grazie alla natura democratica del sistema, incontestabile.
Il risparmio economico si riverserebbe in un drastico abbattimento delle quote di iscrizione all’albo versate dagli avvocati italiani. Si potrebbe ipotizzare una quota unica, per tutti gli avvocati, attualmente ipotizzabile nella somma di 200 euro, di cui i 3/4 a finanziare le strutture locali di governo della categoria, ed ¼ andrebbe a finanziare l’attività del governo e del parlamento centrale.
Se si ragiona degli attuali numeri dell’avvocatura e si prova a verificare la disponibilità economica di cui godrebbero le rinnovate strutture forensi, in caso di adozione di questo sistema e di una suddivisione di questo tipo degli introiti immaginati, si nota come il risparmio degli avvocati consentirebbe in ogni caso alle strutture e ai consigli locali, nonché al governo ed al parlamento dell’avvocatura di godere di un finanziamento più che cospicuo e sicuramente sufficiente a coprire le necessità della professione forense.
Attualmente si può ragionare di una professione che conteggia 240 mila appartenenti. Secondo lo schema di finanziamento proposto in questo articolo, agli organi centrali andrebbero 50 euro per ciascun iscritto all’albo, per un totale di 12 milioni di euro annui. 36 milioni sarebbero invece da destinarsi al funzionamento dei consigli locali.
Ipotizzando una razionalizzazione dei Fori, che consentisse di accorpare quelli più piccoli, in modo da eliminare sprechi, legati alla moltiplicazione dei centri di spesa, si potrebbe ragionare di una suddivisione locale che veda un centinaio di organi, i quali godrebbero di tutte le risorse necessarie per poter funzionare.
Un Consiglio che contasse 10 mila iscritti, tanto per ragionare di un Foro di grandi dimensioni, potrebbe utilizzare 1,5 milioni di euro all’anno per il proprio funzionamento. Abbastanza per poter avere una pianta organica di tutto rispetto (almeno 10 dipendenti) e poter gestire le funzioni necessarie alla macchina amministrativa.
Ci sarebbe modo di ridurre gli enormi sprechi e le sacche di corruzione e clientelismo che gonfiano a dismisura i bilanci degli attuali Consigli dell’Ordine, consentendo un’efficienza assai maggiore, sottoponendo le strutture amministrative locali al potere del governo centrale di categoria.
L’attuale sistema istituzionale forense è una vera e propria macchina mangiasoldi. I soldi degli avvocati generano una gigantesca e mostruosa pletora di assistenzialismo e di corruzione, che non ha nulla a che vedere con le necessità di governo di una professione liberale. Le istituzioni forensi hanno ricopiato il Moloch statale italiano, moltiplicando e diversificando all’infinito le proprie funzioni operative, inventandosene di nuove ed incomprensibili, instillando nella mente labile dei propri vessati sudditi l’indispensabilità di tale mostruoso Leviatano. E’ una gigantesca menzogna, una macchina di mistificazione che serve a derubare e dominare gli avvocati, realizzando al contempo vorticosi giri d’affari, in cui le connivenze con la politica e l’economia, le tangenti, gli appalti pilotati verso gli amici degli amici e lo scambio di favori ed utilità, lecite ed illecite, costituiscono la norma del modus operandi della piovra istituzionalizzata.
E’ la Cosa Nostra che NAD descrive da tempo e contro cui si batte, ma che verrà abbattuta solo quando gli avvocati italiani riusciranno a pensare il futuro, senza paura dei ricatti della mafia istituzionalizzata.
La comprensione di questo articolo dovrebbe attribuire 5 crediti formativi in materia obbligatoria, ma non fa niente.
Avv. Salvatore Lucignano