La “cacciata preventiva” della Collega Picariello dalla seduta del COA di Avellino è sintomatica di un modo di gestire la cosa comune, che ha portato gli esponenti apicali delle nostre istituzioni a gestirle come cosa propria, pretendendo di conservare la poltrona in eterno, di scegliere i propri successori, di estromettere qualsiasi voce dissonante.
Le istituzioni forensi sono governate, in ragione di una cultura del governo come mero esercizio di potere, con pugno di ferro ed intransigente severità da una stretta cerchia di “confratelli”, che perpetuano e condividono il comando in nome di se stessi: figli, amanti, delfini e portaborse costituiscono una pletora di aspiranti potenti che, giunti alla poltrona, non può tollerare che un collega, fosse anche un eletto, possa mettere in dubbio la bontà del loro operato e la sacralità della loro funzione.
Lo abbiamo visto, di recente, con le diffide di Cassa Forense, lo vediamo oggi con la sceneggiata messa su dal Presidente del COA irpino.
La cosa che più rattrista è che il foro non insorga, costringendo il Presidente Barra non dico alla dimissioni ma, quantomeno, a delle pubbliche scuse al Consigliere Picariello.
E, invece, nulla, in una sorta di pax, che ha il sapore, neppure tanto vago, del silenzio imposto da un potere inarrestabile, come solo quello di un dittatore o di un boss può essere.
Del resto, solo una dittatura o una cosca può concepire l’estromissione fisica dell’oppositore dai luoghi in cui si celebrano i riti delle democrazia.
A questo stato di cose l’avvocatura deve necessariamente reagire, se vuole continuare a coltivare la speranza di non estinguersi, perché solo una riconquistata democraticità delle istituzioni forensi potrà restituire alla categoria la forza di interfacciarsi con le altre componenti del sistema giustizia e, soprattutto, con una politica, che in anni recenti si è troppe volte dimostrata ostile.