ONORE O DISONORE?

5 Aprile, 2018 | Autore : |

 

L’incomprensione del sistema integrato che regola i rapporti tra avvocatura e società è un altro grande limite nella mancata coscienza della nostra classe forense, che contribuisce a generare scelte politiche dannose per l’intero comparto giustizia.  I risultati del sistema ordinistico, fallimentari oltre ogni possibilità di difesa, sono lo specchio di un dibattito interno alla professione che quasi mai si esprime a livelli di consapevolezza decenti. Quasi tutti i protagonisti della morte dell’avvocatura di massa hanno paura nel prendere posizione su tematiche di tipo economico, il confronto tra la legislazione nazionale ed europea e l’avvocatura viene di norma vissuto da una base di subalternità ideologica e se si escludono le petizioni di principio praticate e diffuse dal n. 1 del sistema dell’istituzionalizzazione forense, non ci è mai dato leggere un costrutto chiaro, circostanziato e sostenuto da riferimenti concreti, che dia agli avvocati il senso di una programmazione, di una direzione di marcia.

 

 

Abbiamo più volte insistito sul valore pernicioso dell’assenza di centri di rappresentanza inclusivi ed unitari, in grado di tenere insieme il sentire della categoria. Abbiamo chiarito che senza democrazia di qualità, è impossibile produrre una politica di classe di qualità. Il risultato di una programmazione autoritaria delle priorità che vengono calate dall’alto sui colleghi è lo scollamento tra le guerre dei vertici e quelle della base, che si trova di fronte dei soggetti che non sono assolutamente in grado di unire la categoria, perché sono distanti più di ventimila leghe dalla realtà.

I dati sul numero di avvocati che hanno eletto le attuali rappresentanze della categoria non lasciano adito a dubbi. Il Congresso Nazionale di Rimini, quello della svolta autoritaria che ha abolito l’OUA, ha visto i delegati eletti da circa 30 mila avvocati, in tutta Italia. Quello è stato il numero di elettori: 30 mila su 240 mila aventi diritto. Siamo ad una percentuale del 12,5% circa, che non potrebbe legittimare nessun organismo politico serio, ma che nell’avvocatura italiana basta a far parlare di progetti “largamente condivisi”, anche se la vittoria della mozione che ha portato all’OCF, numeri alla mano, è stata ottenuta da un’ampia maggioranza di una insignificante minoranza.

Se ci rivolgiamo alla Cassa Forense, il quadro è ancora peggiore. Il comitato dei delegati che ha gestito il passaggio ai regolamenti attuativi dell’art. 21 della Legge Professionale Forense, quello che sancisce l’iscrizione obbligatoria all’Ente previdenziale per tutti gli appartenenti all’Ordine Forense, è stato eletto da una percentuale minuscola degli iscritti e nonostante appaia praticamente impossibile per un avvocato libero ottenere il dato certo, per la cronica assenza di un archivio che consenta di avere accesso a tali informazioni, la memoria orale, tramandataci dai vecchi o dai maturi che hanno vissuto le ultime elezioni, racconta di un’affluenza risibile. Si aggiunga che l’elettorato passivo, ovvero la possibilità di essere eletti nel Comitato attualmente in carica, era riservata esclusivamente ad avvocati con più di dieci anni di iscrizione alla Cassa Forense, e si comprende come il deficit di rappresentatività dell’Ente assuma proporzioni gigantesche.

 

 

Potremmo continuare, attenzionando gli Ordini Circondariali, ma la situazione non cambierebbe. Persino oggi, con una partecipazione politica aumentata da una dialettica più viva, alcuni grandi Fori italiani stentano a portare al voto i colleghi. Valga in tal senso l’esempio di Roma, che ha rinnovato il Consiglio dell’Ordine nel 2017, con un percentuale di votanti inferiore al 30% degli aventi diritto. Vi è in definitiva una fetta di avvocatura che è lontanissima dalla conoscenza e dall’interesse verso le procedure della rappresentanza e questo, amplificato da una Cosa Nostra Forense che mira ad escludere, più che includere, genera enorme debolezza della politica portata avanti dalle istituzioni.

La vera delegittimazione dell’Ordine Forense avviene dunque per colpa di una politica istituzionale distante ed insensibile alla ricerca di un rapporto con un’ampia parte dei rappresentati, nonostante l’autoritarismo miope e becero dei padrini della cupola accusi gli oppositori e i social network di essere l’elemento che impedisce alle loro nefaste politiche di far breccia nel cuore e nella mente degli avvocati.

 

Quando nel 2015 Avvocatura 3.0 ha chiesto ai giovani avvocati italiani quanti tra di loro fossero a conoscenza delle prerogative, del ruolo e dell’attività dei soggetti, istituzionali e associativi, protagonisti della politica forense italiana, i dati hanno mostrato uno scenario che avrebbe dovuto imporre un’immediata opera di alfabetizzazione civica. Ben il 35,6% degli intervistati dichiarava di non conoscere ruoli e funzioni di almeno due soggetti politici o istituzionali; il Consiglio Nazionale Forense risultava noto “solo” al 16,1% del campione; la Cassa Forense al 24,3%; l’Organismo Unitario dell’Avvocatura era addirittura un UFO, noto solo al 5,9% dei colleghi sondati. Persino i Consigli dell’Ordine circondariale, avvertiti in modo generalizzato come i soggetti più noti e popolari all’interno della categoria, risultavano conosciuti da meno del 50% dei giovani avvocati intervistati, precisamente dal 47,1% del campione. 

 

Cosa dicono questi numeri? Semplice, che le istituzioni forensi italiane, che il regime della Cosa Nostra Forense, gioca a parlare per tutti, ma parla per rappresentare le idee e le istanze di pochi. I numeri dicono che le politiche volte a generare interesse e partecipazione nella vita pubblica dell’avvocatura sono state fallimentari; che il lavoro di comunicazione fornita agli iscritti, di taglio propagandistico e verticistico, è totalmente inadeguato; che manca una cultura della partecipazione alla vita e alle scelte della classe forense e che certamente la ragione di tutto questo non può essere riversata dalla cupola sui propri oppositori o su quell’opera di dialettica politica che i social network hanno permesso di realizzare negli ultimi 5 o 6 anni. Al contrario, senza l’apporto fondamentale di facebook e delle opposizioni alla Cosa Nostra Forense, probabilmente il numero di avvocati interessati alla politica forense italiana sarebbe ancora più basso. Certo, questo lascerebbe mano libera ai padrini della cupola, ma i risultati, in termini di spinta ad una qualificazione delle politiche assunte dalla categoria, sarebbero probabilmente ancora più catastrofici di quelli attualmente realizzati (anche se ciò risulta davvero difficile da immaginare o credere).

 

 

 

 

I numeri dell’indigenza. Il decoro che non c’è. 

 

 

La premessa di questa riflessione sui concetti di onore e disonore era fondamentale. Come spesso avviene, mi comporto da Dottor Divago, titolo nobiliare imprestatomi dal grande maestro Gianni Clerici, perché ciò di cui si deve parlare è spesso a lato di quel di cui si deve comunque parlare. Non possiamo comprendere il dramma della povertà morale dell’avvocatura italiana, la pochezza delle sue politiche istituzionali, il senso di disfatta e di anarchia che regna nella classe, avvilita da una distanza siderale tra vertici e base, senza passare per un’ analisi del sistema di rappresentanza politica. Il primo rapporto Censis sull’avvocatura italiana non ha mancato di esprimere questo concetto. Chi ha prodotto la relazione che ha accompagnato i dati della rilevazione pubblicata dalla Cassa Forense nel 2016, ha chiaramente detto: “ehi, la vostra situazione fa schifo, la rappresentanza forense è impopolare, l’83,5% dei vostri rappresentati è scontento di voi, dovete fare qualcosa, invertire la rotta…

 

Un allarme che è stato tradotto dal mio adorato Mullah Coniglio, Alias Onan il Ra-Barbaro, alias Nunzio Luciano, Presidente Grand Luppman Duca Conte Mega Direttore Naturale della Cassa Forense con un grottesco: “i dati dimostrano che la strada che stiamo percorrendo è giusta“.

Orbene, tenendo conto che alla prossima occasione in cui incontro Nunzio, gli chiederò i riferimenti del suo pusher, con ammirazione, si intende, tornando alla politica forense, non possiamo non fare un’analisi sulla fame degli avvocati, certificata anche dagli ultimi numeri che offriamo ai colleghi, quelli che riguardano la corsa dell’avvocatura ai 400 “posti” da magistrato onorario messi in palio dal Ministero del gioco e della Giustizia.

La tabella che abbiamo riportato indica che il 73,6% di chi ha fatto domanda per questa integrazione di stipendio di 700 euro mensili svolge la professione di avvocato, o meglio, risulta iscritto all’Ordine Forense.

 

Ancora più emblematico, o inquietante, se si vuole, risulta la lettura combinata del secondo dato che proponiamo, in materia di onore: quello che riguarda il numero di domande proposte nelle singole Corti d’appello. La Corte d’appello di Napoli, tanto per far comprendere di cosa parliamo, ha visto al 29 marzo 2018 la presentazione di 9788 domande. Tenendo presente che il dato medio nazionale è che il 73,6% di tali domande siano state proposte da avvocati, possiamo ipotizzare che circa 7203 avvocati appartenenti al distretto di Corte d’Appello di Napoli abbiano fatto domanda per questo “posto”. 7203 su circa 29 mila appartenenti agli albi degli Ordini del distretto, ovvero quasi il 25% del totale, o se si vuole, uno su quattro. 

 

Perché prendo in considerazione proprio il distretto di Napoli? Non certo per campanilismo inverso, quanto per dimostrare, ancora una volta, che il numero di exit strategy ricercate dagli avvocati italiani è strettamente correlato alla saturazione degli albi territoriali. Più avvocati ci sono, più sono poveri; più sono poveri e più sono costretti a immaginare una via d’uscita dalla povertà. Napoli sotto questo aspetto rappresenta il paradigma perfetto del fallimento sistematico dell’Ordine Forense. Come mostrano le ultime statistiche pubblicate dal Consiglio Nazionale Forense, Napoli è il Foro d’Italia maggiormente assaltato da quel surplus di avvocatizzazione che ha preso piede in Italia.

I numeri, ancora una volta, sono impietosi. Napoli guida le classifiche di “smaltimento” dell’eccesso di domanda di ingresso nella professione forense. 5323 nel 2014; 4776 nel 2015; 4642 nel 2016. 

Una marea di aspiranti, che attribuisce a Napoli il triste primato della corsa alla professione che non c’è più, acuendo una situazione di disagio economico, generando nuova pressione nella bolla speculativa dell’avvocatura di massa, già scoppiata, nonostante il silenzio colpevole della Cosa Nostra Forense, impegnata ad attrarre nuove risorse da sfruttare, prima che il tanto venerato “mercato” faccia la propria selezione.

Non possiamo dunque illuderci che l’onore possa essere mantenuto, non con questi numeri, non con un processo di massificazione e squalificazione del titolo di avvocato. La disgregazione, la lontananza della classe dalla sua guida politica è figlia di una scellerata politica di apertura, basata sull’accettazione di principi selvaggi. Lo schema è stato: chi vuole entra, chi sopravvive è il migliore, chi non riesce a farlo… evidentemente, meritava di non farcela.

Si tratta di un’idea che sta mostrando tutta la sua inadeguatezza a cogliere i processi di desertificazione reddituale e lavorativa, che non si limitano a colpire fasce di popolazione o specifiche attività, ma tolgono alternative reddituali ed occupazionali ad intere regioni, a generazioni che vengono rinchiuse in una  scelta di fatto impossibile: continuare a fare ciò che si fa, cercando di trarne magri profitti, o rassegnarsi a fare altro, con profitti spesso altrettanto magri, ma con in più la perdita dell’avviamento professionale, dell’identità personale, della dignità, in uno con la rinuncia ad una progressione sociale ed economica che viene messa pesantemente in discussione, quando si “arretra”, perlomeno nell’immaginario collettivo, da una posizione di libero professionista, che svolge un lavoro intellettuale, a mero bracciante, o lavoratore manuale.

 

 

Il senso di questa panoramica è dunque quello di riportare il concetto di “onore” nella sua dimensione concreta. Non può esserci magistratura onoraria laddove la motivazione dominante che spinge a ricercare tale ruolo sia la fame. Non può esserci avvocatura onorevole o decorosa dove i redditi non sono assolutamente compatibili con i concetti di libertà, indipendenza e decoro, sbandierati in lungo e in largo dalla Cosa Nostra Forense. I numeri della massificazione della giustizia necessitano di essere governati. Le vite delle pedine che si azzuffano per le briciole non possono più essere ritenute irrilevanti, da un punto di vista di progettazione sociale. Non si può continuare a raccontare la menzogna di una “mano invisibile” che aggiusta e fa il bene, perché le dinamiche di allocazione dei redditi hanno dimostrato infinite volte di non seguire le leggi dell’etica pubblica. Ciò vale anche per il settore giustizia e dovrebbe valere a maggior ragione proprio per questo settore. Se per l’avvocato, come è indubbio, si invoca un ruolo essenziale nella struttura di una democrazia matura, se si riconosce che l’avvocato, ogni avvocato, svolga una funzione non solo imprenditoriale e privata, ma concorra all’affermazione del valore preminente dell’affermazione della giustizia, lo Stato e l’Europa devono offrire tutele a chi intraprende un percorso di questo tipo. Occorre finalmente ragionare di sostegno, occorre affrontare il problema della bulimia forense come fattore di squalificazione dello Stato, guidando una transizione che consenta esiti diversi dall’abbandono per fame.

La selezione naturale lasciata alla legge del più forte non può essere ritenuta compatibile con l’affermazione del ruolo costituzionale dell’avvocatura. Chi invoca tutele per gli organismi apicali di cui fa parte, non bastandogli i soldi, le indennità di funzione ed il potere di vita e di morte sulla categoria di appartenenza, dovrebbe occuparsi di questo: di onore e di decoro, ma non declinandoli in astratto, bensì difendendoli in concreto.

 

Avv. Salvatore Lucignano

 

 

 

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