La scomparsa dell’avvocatura di massa è ormai un processo destinato a completarsi, nel giro di pochi anni. L’analisi di questa evoluzione della professione forense non comporta particolari difficoltà, essendo chiari da tempo i fattori che impediscono di pensare che un paese avanzato, con un sistema giudiziario efficiente e non bulimico, possa generare contenziosi in grado di sfamare un avvocato che in media è presente ogni duecentocinquanta cittadini.
Non è più in discussione quindi che il numero degli avvocati italiani rappresenti il frutto di una patologia nel governo delle cose, né che la Cosa Nostra dell’istituzionalizzazione forense sia stata la principale responsabile di questa bolla speculativa. Ciò di cui ancora si può discutere è solo il modo di governare il downshifting necessario ad accompagnare la riconversione della professione forense, adattandola alle evoluzioni sociali e tecnologiche in atto.
PENITENZIAGITE. DOWNSHIFTING IS THE WAY
Per molto tempo questa è stata la formula con cui ho concluso le mie analisi sullo stato dell’avvocatura italiana. Molti colleghi non capivano, alcuni si chiedevano cosa volessi intendere, altri si divertivano, per la ritualità del motto. In realtà l’esigenza di una profonda autocritica ed autoriforma, il penitenziagite che richiama l’invito degli eretici dolciniani narrati da Umberto Eco ne “Il nome della rosa”, significava che l’avvocatura non può sopravvivere, né sperare di evolvere, senza accettare di fare penitenza, ovvero senza accusare sapientemente se stessa di essere stata la causa della propria decadenza, traendo da questa consapevolezza le basi operative per rifondarsi. La palingenesi dell’avvocatura, non più massa squalificata ed inconsapevole, ma elite forte, corporazione, collettività, non è un miraggio a cui guardare, come ad una cartolina sbiadita, né può nascere dall’unanimismo, retorico ed ampolloso, a cui fa richiamo la Cupola dell’istituzionalizzazione. L’unico modo perché si verifichi la rinascita della professione forense è un governo unitario e plurale delle cose e dei processi in cui siamo immersi, in grado di includere vasta parte della categoria, convincendola e rendendola protagonista di un diverso futuro. Perché ciò accada è necessario che il penitenziagite diventi la cifra diffusa dell’agire politico di categoria, superando i meccanismi, quasi riflessi automatici, che tengono gli avvocati italiani nella schiavitù del vittimismo, dell’ auto assoluzione, della sterile lamentazione.
Al penitenziagite deve seguire la via del downshifting. Quando ho cominciato a parlare di downshifting, in Italia probabilmente eravamo in pochissimi ad immaginare che nel giro di dieci anni, questo concetto, seppure molte volte travisato e stravolto, si sarebbe imposto come l’elemento culturale più importante, nell’ambito di un possibile ripensamento della spinta alla globalizzazione generata dalla fine della divisione del mondo in blocchi.
Più volte banalizzato e confuso con il concetto di “decrescita felice”, il downshifting in realtà non indica affatto un processo di riduzione della ricchezza o del benessere, ma al contrario, trasforma i valori in valore, dettando una differente scala di obiettivi, concorrendo ad una ridefinizione del concetto di “bene”, in senso economico e giuridico, ponendosi come fondamento di un nuovo umanesimo, che contrasti l’alienazione propria dei processi meccanici di asservimento dell’individuo al sentire dominante delle società di massa.
Downshifting vuol dire dunque in primo luogo riappropriazione del proprio io, capacità di essere sintesi dei propri bisogni, relazione consapevole con se stessi e con l’altro, esaltazione della lentezza, della perdita, della sconfitta, come elementi naturali e positivi, all’interno dell’esperienza umana. Il donwshifter non fa altro che vivere più intensamente la propria umanità, rinunciando alla supina accettazione di dogmi dimostratisi privi di senso, il primo dei quali è sicuramente quel “più è meglio”, che ha portato distruzione e infelicità ovunque si sia imposto.
DOWNSHIFTING E AVVOCATURA: UN BINOMIO POSSIBILE
La morte dell’avvocatura di massa deve essere vista come l’opportunità di un nuovo inizio, fondato su valori diversi da quelli “classici”, capaci non solo di ridare senso al concetto di valore morale, ma di trasformare finalmente i valori posti alla base dell’esercizio della professione, in valore economico e personale. E’ uno dei maggiori elementi di crisi dell’avvocatura contemporanea, di cui NAD si occupa da tempo, ma si tratta di un concetto che ancora pochissimi avvocati italiani posseggono, nonostante alcuni ne comincino a scorgere i contorni e le forme. La trasformazione dei valori in valore non è solo un bisogno economico; questa visione, sciatta e superficiale, non coglie l’immenso valore di un patto sociale che includa l’individuo, lo renda elemento consapevole di una comunità orientata da finalità eticamente apprezzabili ed individualmente redditizie. I valori arcaici su cui è fondata l’avvocatura sono ormai stantii, ammuffiti, lontanissimi dal sentire e dal bisogno degli avvocati. La Cosa Nostra dell’istituzionalizzazione forense tenta affannosamente di imporli o di proporli, con la minestra, eternamente riscaldata, dei vari Calamandrei e dei suoi epigoni, con la storiella dell’unità, che in realtà diventa penoso unanimismo, con la ridicola faccenda del decoro, che ormai, osservato attraverso il filtro della fame e del malaffare, genera solo rabbia e disprezzo.
NAD si sta preoccupando non solo di combattere per un’avvocatura che superi la retorica della Cosa Nostra istituzionalizzata, ma vuole far capire ai colleghi che i valori su cui dobbiamo rifondare il nostro futuro, non possono essere disgiunti dal valore. NAD spiega che non c’è diritto che possa dirsi effettivamente tutelato, se l’avvocatura non è in grado di offrire al titolare di quel diritto anche un interesse concreto. NAD vuole che il diritto collaborativo, il processo di puro diritto, i mezzi e gli strumenti per fare della giustizia il regno di un’efficienza ritrovata del pensiero umano,si sostituiscano alla patetica accettazione di una cronica inefficienza del sistema, che oggi relega l’avvocato ad una pratica spesso autoreferenziale, lontanissima dalla realtà e dunque incapace di trasformare i valori in valore.
Ciò che gli avvocati non hanno compreso e che ancora non comprendono, è che non esiste fatto sociale che possa godere di buona stampa, in assenza di una dimostrazione semplice, brutale e ricca di giustizia intrinseca: il suo funzionamento. La natura e la società, alla lunga, premiano ciò che funziona e quello che non funziona, o funziona male, se ha speranze di imporsi, per periodi di tempo limitati, in ragione di una serie di fattori che lo rendono necessario, cede progressivamente all’abbandono, o comunque al disprezzo, quando negli individui si fa largo e diventa sentire dominante, la consapevolezza che quell’elemento è in realtà un fatto negativo.
Quello che è accaduto all’avvocatura e alla giustizia italiana è semplicemente questo: il monopolio operativo degli avvocati rispetto ai fatti di giustizia, il malaffare, le famosissime “trastole” seriali che hanno accompagnato il boom dell’avvocatura di massa, sono state progressivamente percepite dalla società come un costo inaccettabile. Ciò ha finito con il travolgere non solo il marcio, che oggi fa sempre più fatica a ricavarsi uno spazio di manovra, ma è diventato l’alibi per la soppressione dei diritti e degli interessi legittimi, riportando la società italiana ad uno stadio quasi “pregiuridico”, per certi versi tribale. L’Italia è oggi un paese privo di giustizia, il regno di ordalie in cui il più forte vince quasi sempre, in cui il debole diventa non di rado il capro espiatorio delle malefatte più diffuse, in cui il giusto raramente si impone, perché il furbo ha strumenti troppo potenti per poter essere battuto.
Il ritorno ad un’avvocatura che divenga operatrice di soddisfazione, che rinunci alla propria esaltazione, ottenuta attraverso pratiche inefficaci ed immorali, potrebbe essere una enorme opportunità di far coincidere finalmente i valori con il valore. L’avvocato 3.0 è operatore di soddisfazione, solutore di problemi, consigliere, pioniere dei diritti negati e sentinella in grado di vincere, con risultati apprezzabili dal punto di vista economico, le battaglie contro i cattivi. Perché però l’avvocato torni ad essere in sintonia con la società, occorre che l’avvocatura diventi protagonista di una rifondazione della giustizia, che non può essere ottenuta con un bombardamento costante di piccoli asteroidi, di leggi e leggine, di riformine e papocchi, ma va realizzata attraverso una razionalizzazione dell’intero corpus normativo, che va sensibilmente ridotto e riformulato, uscendo dalla retorica e dal formalismo ed abbracciando finalmente il buono contenuto nel concetto di “efficienza”.
In definitiva il downshifting serve a trasformare l’avvocatura di massa, asfittica e moribonda, spesso inutile e frustrata, in un corpo intermedio efficiente, rapido, giusto, che torni ad essere percepito come alleato del cittadino e sappia trarre da questo patto, riscritto e rinvigorito, nuova linfa, nuova dignità, superamento di un attuale senso di vergogna e, contestualmente e conseguentemente, valore economico, reddito, benessere.
MODERNI SCHIAVI: L’AVVOCATO DIPENDENTE
L’attuale dibattito sull’avvocato dipendente o monocommittente risente di questa incapacità di pensare l’avvocatura in chiave contemporanea. L’avvocato di massa è schiavo, praticamente da sempre. La differenza tra quanto avviene oggi e quanto succedeva trenta anni fa consiste nell’evoluzione della schiavitù. Mentre un tempo detta condizione serviva a costruire le basi per un affrancamento, redditizio e socialmente prestigioso, oggi l’avvocato debole e massificato nasce schiavo e muore spesso schiavo, ovvero, se si affranca, muore povero o è costretto ad abbandonare la professione. Il mito dell’indipendenza del professionista è un altro di quei valori, retorici e non più credibili, che cozza da interi lustri contro una realtà affatto diversa.
Occorre dunque adeguare il senso dell’indipendenza, trovando il modo di regolare i fenomeni della subordinazione funzionale, distinguendo, sul piano concettuale e giuridico, l’aspetto morale, il sentire del professionista, da quello materiale, legato al bisogno di strutture, di capitali, di clientela. E’ sconvolgente la pochezza con cui un gran numero di operatori di diritto ignori che i due piani non possono essere surrettiziamente sovrapposti. L’avvocato figlio del bisogno non è libero e questo, più che ogni richiamo alle figurine e ai busti di marmo, è il vero discrimine tra indipendenza e sudditanza, ben più di un vincolo operativo che impone subordinazione del professionista libero, rispetto ad un centro di smistamento di lavoro e lavori, distinto e distante dall’individuo investito del mandato.
Buone leggi possono generare avvocati subordinati, monocommittenti, vincolati all’operatività di strutture che li integrino, garantendo al contempo la libertà del professionista, molto meglio di quanto possa fare un pomposo richiamo alla libertà, che neghi di fatto una realtà che si presenta troppo spesso con il volto dell’inedia, della sottomissione, della vera e propria schiavitù in giacca e cravatta.
LA SCOMPARSA DEL LAVORO, TRA MITOLOGIA E SERISSIME POSSIBILITA’
In questo contesto, così degenerato, la scomparsa del lavoro a causa dell’automazione generalizzata, diventa un elemento centrale nel bisogno di uscire dalla concezione dell’avvocatura di massa, spingendo la categoria verso un’autoriforma che porti a ripensare il numero, la funzione, l’operatività del professionista legale. Si tratta di temi che NAD ha proposto molte volte ai suoi simpatizzanti e che finalmente, forse perché gli echi di quanto scriviamo nn possono passare inosservati, comincia ad entrare nel dibattito politico della categoria. Non è pensabile ignorare l’avvento delle macchine e non chiedersi quale impatto provocherà la loro diffusione nel settore delle prestazioni legali, tra cinque o dieci anni. Tutto ciò che potrà essere fatto senza l’uomo, verrà molto presto fatto dai robot. Che piaccia o no, che lo si accetti o meno, questa evoluzione non è né fantascienza, né narrativa. Molto più brutalmente, si tratta di realtà reale, di fatti già accaduti, di un futuro che è tale solo per l’uomo della strada, mentre i centri di controllo delle trasformazioni in atto nelle società di massa, già trattano questi aspetti come elementi consolidati, ponendoli alla base dei loro piani di sviluppo e di investimento futuro.
La scomparsa del lavoro, il tema del reddito da impegno, il superamento della concezione prerobotica della produzione di utilità economiche, dovrebbero essere il centro di una riforma della professione forense che salvaguardi il presente, ponga dei limiti stringenti al futuro, costruisca gli antidoti per far si che lo tsunami non travolga tutto l’esistente, distruggendo indiscriminatamente. I costi umani legati all’inoccupazione di massa stanno già diventando insostenibili. Il fenomeno del lavoro povero è da tempo parte integrante della società e ha preso piede, con effetti nefasti, all’interno della professione forense. Mentre la corsa al mito del libero professionista continua, con migliaia di sventurati che ogni anno “festeggiano” il superamento dell’esame di abilitazione alla professione forense, la Cosa Nostra istituzionalizzata osserva, inerte, la molla che continua a caricarsi. La pressione continua ad aumentare, il disagio cresce, i redditi diminuiscono impietosamente, mentre gli spazi operativi non accennano ad aumentare. Stiamo gettando solide basi per l’esplosione di una supernova che lascerà sul lastrico decine di migliaia di inutili “titolati” e non mettiamo in campo uno straccio di progetto culturale e politico che possa impedirlo.
POSSIAMO SALVARCI?
Si, possiamo. La domanda non è retorica, nè provocatoria. L’avvocatura può sopravvivere allo sterminio di massa, adottando strategie che la trasformino, in senso conforme alle caratteristiche della società futura. Il futuro non è un elemento al quale l’uomo abbia mai potuto dire di no. Il futuro è la classica proposta che non si può rifiutare, come insegnava il mitico Marlon Brando, nei panni di Vito Corleone. Dire di no, rifiutare la realtà in divenire, non produce dei santi, né dei martiri, ma fa solo morti. Ciò che dobbiamo fare, per impedire il peggio, è trasformare la giustizia e l’avvocatura in elementi propulsivi della società futura, tornare finalmente a far coincidere la funzione dei valori e del diritto con la produzione e redistribuzione di valore e benessere. Possiamo farlo, perché il governo delle cose non è impossibile, né è scontato che ciò che va così, che magari è sempre andato così, debba andare per sempre così. Possiamo farlo, ma dobbiamo sapere che non è facile, né privo di prezzi da pagare. Saremo in grado di pagare questi prezzi? A questo, francamente, oggi non sono in grado di rispondere. Sicuramente ci spero.
Lo studio del presente articolo darà diritto a tre crediti formativi in materia obbligatoria
Avv. Salvatore Lucignano