MEDIOCRI, PREDICATORI ED EROI

10 Aprile, 2018 | Autore : |

 

A volte qualche collega mi riporta le vagonate di astio di cui sono oggetto, in ragione della mia attività in politica forense. Il ragionamento sotteso è paradossale: “ma se in tanti ti sono ostili vuol dire che il bene, la ragione, sta dalla parte dei tanti…”

Naturalmente mi faccio quasi sempre beffe di questo strampalato sillogismo e solo quando l’interlocutore è degno di una risposta, analizzo brevemente il concetto di moltitudine e le sue attinenze con il bene e con il vero. NAD è un’associazione politica che si occupa di cambiare il governo dell’avvocatura italiana, per avere istituzioni forensi democratiche, rivolte al bene e al benessere degli avvocati, e poter così prestare all’Italia una classe forense più forte, in grado di incidere in modo proficuo sul sistema giustizia. Si tratta di obiettivi molto ambiziosi, che comportano un elevato grado di competenza per poter essere compresi e metabolizzati da una vasta fascia di avvocati. Dolersi dell’atteggiamento dei tanti avrebbe dunque senso se i tanti fossero buoni, ma se per “tanti” si fa riferimento, con approssimazione logica, ai pochi che costituiscono l’universo osservabile da chi si rifà alle opinioni raccolte, per rappresentarsi quelle circolanti, sorge il dubbio che quei tanti non siano che alcuni.

Le problematiche connesse ad un utilizzo improprio della logica sono di enorme portata, anche quando si fa politica. Vi è un livello di organizzazione dei concetti, rigoroso e preciso, che cozza, spesso in modo insanabile, con le confusionarie approssimazioni che fanno presa sui tanti.

Ciò che è funzionale non è corretto e ciò che è corretto non è funzionale.

Questa evidenza non viene coltivata spesso, in politica. Prevale un grossolano giustificazionismo verso l’esistente, che porta i tanti ad identificare il bene con il reale, a discapito dell’ideale e del possibile. Il processo di trasfigurazione valoriale si completa molto spesso con l’accusa rivolta ai fautori del diverso. Il ragionamento che prevale nei tanti è più o meno il seguente: “se non sei reale, ma solo possibile, vali meno del reale, che è buono in quanto vero“.

 

 

E’ una delle distorsioni più care alla mediocrità: l’amore per la realtà, l’incapacità di porsi in modo dialettico e proficuo verso ciò che va realizzato, verso il diverso, il migliore. La mediocrità è in sintesi una forma di appagamento della personalità debole, uno stato di quiete che si placa nella certezza che tutto ciò con cui si entra in contatto non cambierà, resterà tendenzialmente identico, non comporterà sforzi per essere compreso, rielaborato o ricostruito. Il mediocre è quasi sempre amante dell’ordine, perché in esso vede punti fermi, mentre nel trambusto della rivoluzione perde i riferimenti e si trova in balia di un impegno cognitivo superiore alle possibilità, finendo così per desiderare la pace, la quiete, la stabilità del reale. Approfondendo il concetto di quiete, di pace, legata alla stabilità dell’esistente, la mediocrità esprime uno dei suoi feedback più immediati nei confronti del diverso, quando esso impone una presa di coscienza. Per sua natura il mediocre è infastidito se viene additato e riconosciuto come tale. A differenza dell’individuo capace, che può irritarsi ancor più del mediocre se il suo io tenta di essere sminuito, ma quasi sempre è in grado di spingere se stesso al miglioramento, all’autocritica, magari nascondendola agli occhi dell’osservatore, il mediocre raramente immagina di dover mutare qualcosa nel suo comportamento. Questo è un altro elemento che contribuisce a scatenare una reazione a qualsiasi forma di scossa, da parte dell’esterno. Il mediocre è tendenzialmente stabile e quasi sempre utilizza se stesso come paradigma dell’eccellenza.

 

 

 

Dalla scorretta definizione dei tanti, con pochi ragionamenti, si può passare alla più calzante idea che siano i semplici, e non i tanti, ad odiare ciò che sconvolge l’esistente. Uno dei migliori trattati sulla semplicità è sicuramente enunciato da Frate Guglielmo, nel popolare quarto libro dell’etica, opera del V secolo avanti Cristo, in cui il monaco cistercense analizza a fondo il rapporto tra la semplicità e le avanguardie. Occorreranno secoli e una imponente opera di avanzamento della logica classica, servirà l’opera di Frege, Russell e Wittgenstein, prima che il concetto di semplicità venga adeguatamente fornito di una veste politicamente utile. Il semplice si muove in un universo logico funzionale, ma scorretto, incarnando appieno il paradosso della buona politica. Il complesso, comportando una fatica che il mediocre rifiuta, non avendo gli strumenti per approcciarsi a tale dimensione della conoscenza, viene associato dal semplice al male. L’ignoto, quasi sempre accattivante per l’eccellenza, assume agli occhi dei semplici un valore negativo, non di rado intriso di superstizioni, paure e fobie che riportano in vita le peggiori debolezze dell’io più ancestrale.

 

La predicazione dell’umiltà, della povertà, assume per il mediocre un aspetto che ben si concilia con la semplicità, per certi versi, mentre per altri esprime appieno la reazione di ostilità verso il cambiamento. Il rapporto della mediocrità con l’insuccesso è duplice, conflittuale, infantile. La ricerca ossessiva di una realizzazione porta il mediocre ad ambire al prestigio sociale, ma allo stesso a provare fastidio verso chi lo esprime. Questa forte tensione verso un bisogno di completamento del proprio percorso di affermazione dell’io, spinge il mediocre a considerare l’irraggiungibile come una manifestazione dell’oltre uomo. Mentre l’eccellente si pone il problema di conseguire il successo, codificando una dimensione personale ed autonoma dello stesso, il mediocre vede nel successo la testimonianza di forze a lui sconosciute, tali da indurre ad una sorta di idolatria inversa nei confronti di questa dimensione.

I meccanismi alla base di molte eresie moderne si basano proprio su questo schema. In tal caso, quando l’eresia si manifesta, il malcontento delle classi subalterne esprime il serbatoio di pulsioni pauperiste, che cercano un riscatto nel sovvertimento delle istituzioni, non sulla base di una volontà forgiata dall’eccellenza, ma dall’emarginazione e dalla semplicità. La semplicità è dunque il tratto mentale dominante delle eresie revansciste e determina una parabola politica quasi sempre autodistruttiva per chi abbraccia tale visione delle dinamiche sociali.

 

Quando mediocrità e semplicità si incontrano, emergono le figure dei predicatori. Uno dei fondamenti meno analizzati della figura del predicatore è il rapporto tra la frustrazione del mediocre ed il suo bisogno di rivalsa. Il sovvertimento del mondo reale, che relega il mediocre ad una condizione di insoddisfazione, caratterizzandosi come espressione tipica del fallimento, diventa il momento in cui il fallito può finalmente esprimere la ribellione verso la propria incapacità di affermazione. Il predicatore diventa così il fattore scatenante in grado di catalizzare la pressione emotiva che porta il fallito alla rivolta, ma non gli consente di uscire dalla sua condizione di semplice.

In questo quadro non possono mancare gli eroi. Elementi indispensabili per la mitologia, sia quella istituzionale che eretica, gli eroi sono onnipresenti nel racconto che i semplici si tramandano. Il meccanismo di identificazione è un altro strumento indispensabile al mediocre, che ne ha bisogno per sopperire alle caratteristiche che gli mancano. L’eroe è l’ideale non raggiungibile, e pertanto non destabilizzante, che mantiene il mediocre nella sua quieta disperazione. La morte è dunque una delle principali qualità che l’eroe dei mediocri deve possedere. A differenza dell’intellettuale, che agisce nella complessità della concretezza, l’eroe si trova nella dimensione narrativa, non problematica, della conoscenza. Ciò consente al mediocre, vittima dei predicatori che esalta e della sua incapacità di vedere il proprio fallimento, di venerare le gesta eroiche, ammantandole di un’aura di irripetibilità che tacita oltre ogni dubbio la sua coscienza politica.

 

L’aspetto più conservatore di questo rapporto, così profondamente dipendente, che il fallito ha con le sue divinità di riferimento, consiste nella funzionalità stabilizzante delle figure che popolano il suo mondo. Il transfer, l’idealizzazione eroica del personaggio mitico, tanto quanto l’esaltazione violenta del predicatore, sono precursori dell’abbandono di entrambi. Il fallito non segue né santi, né eroi, né predicatori, ma sfugge alla propria minorità. L’anelito alla santità, il bisogno costante di affermare la natura manichea dell’agire concreto, concorrono a definire personalità malate, accecate dalla semplicità e dall’inadeguatezza. In definitiva il mediocre è il più grande alleato del suo signore, perché non è libero e consapevole, non fa uso dell’intelletto in modo approfondito e non è capace di dare prospettiva e visione al suo fervore. L’esaltazione passeggera, l’instabilità, sono i tratti distintivi della foga della mediocrità. Eternamente in cerca della perfezione altrui, incapace di introspezione, il mediocre vaneggia, nella speranza di trovare la vittoria, ma il suo viaggio si rivolge a territori dello spirito in cui di essa non vi è la minima traccia.

Avv. Salvatore Lucignano

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