Molte volte in questi anni mi sono soffermato, nelle mie vagabonde e sterili riflessioni, sull’importanza che l’avvocatura costruisse un archivio politico, capace di testimoniarne l’evoluzione. Ho spesso sollevato il problema riguardante l’assenza della memoria, in una professione che fa sempre più fatica ad individuare oggetti e soggetti unificanti. In effetti l’assenza di un archivio storico e politico dell’avvocatura italiana è uno dei segni tangibili dell’inesistenza della classe. Più volte, durante l’ultimo mandato dell’OUA, ho sollecitato i componenti dell’Organismo affinché si lavorasse ad un archivio, o perlomeno si tentasse di ricostruire il percorso compiuto dalla categoria: inutile ribadire che è stato tutto vano, a conferma che gli 88 componenti di OUA, incaricati dal regime dell’istituzionalizzazione di dimostrare l’inutilità, erano assolutamente perfetti per raggiungere lo scopo.
Un giovane avvocato che voglia studiare ciò che è accaduto all’interno della sua categoria non ha praticamente alcun riferimento. Non esiste un sito internet che contenga le mozioni approvate dai congressi degli ultimi anni, se si escludono quelle concesse a Rimini agli amici del regime. Non esistono quasi mai interventi scritti, realizzati nelle pompose Conferenze di medio termine, assemblee, stati generali ed altre mille occasioni in cui gli avvocati italiani hanno chiacchierato, in questi anni, senza produrre molto altro. Ancora in questi giorni, a fronte di una riunione di rappresentanti dell’Organismo Congressuale Fantoccio, pubblicizzata su social network, rispetto alla quale mi ero permesso una rispettosissima e flebile domanda: “ma pubblicherete le vostre relazioni?”, la risposta è stata il silenzio. Un brullo nulla, come direbbe qualcuno. Un nulla vile e cospiratore. (Cit.).
L’assenza di una memoria delle posizioni assunte, l’enorme difficoltà per l’avvocato comune di far riferimento ad un percorso e ad un archivio politico ufficiale, se da un lato dimostrano il valore degli avvocati italiani, disinteressati a questi temi ed occupati quasi unicamente a sostenere quei clan disposti ad offrirgli briciole del loro lauto pasto, dall’altro dimostra l’impossibilità che questa categoria di individui possa diventare una classe. Un tale processo di presa di coscienza, capace di elevare la pletora di accattoni, che nel senso più pasoliniano del termine sopravvivono per mezzo della professione di avvocato, appare oggi quasi un miraggio, perlomeno nelle condizioni attuali.
Il ruolo di un avvocato che voglia avviare riflessioni autocritiche sul livello a cui è scaduta la categoria, sconta dunque una contraddizione bruciante, che più volte ho espresso: il consenso del volgo, della plebe, si ottiene esclusivamente concedendo pane e lavoro, pertanto molta plebe è istituzionalizzata, ovvero a sostegno dei vari Consigli dell’Ordine che comprano i loro voti, mentre il resto della plebe, non essendo disposta ad affrontare un serio processo di riqualificazione, spesso anche per oggettivi impedimenti reddituali, morali e culturali, è praticamente impossibilitata ad essere parte di un percorso volto alla nascita della classe forense.
Il regime è ovviamente consapevole di tutto questo. Se il corpo dei Marines, per bocca del soldato Joker, non voleva uomini, ma macchine, pronte e capaci di uccidere, va detto che il regime dell’istituzionalizzazione forense italico non vuole avvocati, ma plebei, soldatini obbedienti, timorosi della libertà e pronti ad ossequiare la vuota retorica proposta dalle istituzioni. Un’analisi onesta non può sfuggire ad un dato: se lo scopo del regime era di cooptare all’interno della professione un enorme numero di mestieranti, pronti a servire qualsiasi padrone, incapaci di organizzare una resistenza contro gli abusi del potere ed invaghiti di parole retoriche, decoro, funzione sociale dell’avvocato ed altre storielle, occorre riconoscere che il risultato è stato brillantemente conseguito.
Dei 240 mila mestieranti che attualmente compongono l’avvocatura italiana la gran parte sono debolissimi. Buona parte è composta da sopravviventi, moltissimi sono i ruffiani, un vero esercito, quasi tutto impegnato a sostenere il regime, nelle sue manifestazioni e parate di facciata. Pochissimi sono gli avvocati liberi, che vogliono una classe fondata su presupposti e valori diversi, mentre molti professionisti affermati sono semplicemente estranei a qualsiasi riconoscimento sociale e collettivo, e si limitano a portare avanti la propria attività, realizzando redditi e denari. La politica forense italiana è diventata così un tritacarne spettrale. Quasi nessun avvocato di successo ne fa parte. La quasi totalità degli avvocati che svolgono questa attività è fatta di poveri diavoli, che tentano di fare il mestiere della politica per arrotondare. I risultati di questo processo di progressivo scadimento del valore intellettuale e morale dei politici forensi è sotto gli occhi di tutti: istituzioni forensi in cui si fa fatica a trovare persone che sappiano leggere e scrivere, e in cui l’essere una persona di cultura è visto quasi come un delitto.
In un tale stato di cose la politica forense radicale non può illudersi. Se è vero che l’autocritica non deve mai mancare, occorre anche saper osservare. Questo mondo non è pronto, non ha in sé le premesse per il cambiamento e la rivoluzione. In un discorso bellissimo e famoso, tenuto pochi anni prima di morire, il maestro Mario Monicelli analizzava la situazione dell’Italia, parlando di quanto sia dannosa la speranza. Quelle parole, ancora oggi, riecheggiano, a perenne monito, per gli avvocati che vogliano far nascere l’avvocatura in questo paese. Monicelli parlava di rivoluzione, di doloroso prezzo del riscatto, di cambiamento che esige sacrifici. E’ forse un caso se l’Italia, a differenza di altri paesi europei, che devono proprio alla rivoluzione il loro essere diventati Stati unitari, non abbia mai visto un tale evento al proprio interno? Forse no, come insegnano alcune pregevoli analisi storiche.
L’avvocatura è nelle stesse condizioni, specchio fedele del paese. I propri mentori sono i retori, e più sono vacui e lontani dall’affrontare il gigantesco problema del regime dell’istituzionalizzazione forense, più sono estranei allo sporcarsi le mani con la lotta, più sono onorati dalla plebe. I galoppini del regime raccontano con dovizia di particolari i piccoli aspetti di un quotidiano, fatto di nulla, che sul piano politico appare il resto di niente. I ruffiani sono sempre pronti a dire che le istituzioni vanno difese, anche se sbagliano, perché in fondo… (mi danno pane e lavoro… n.d.a.).
Siamo una categoria in cui mancano gli uomini, e dunque non è un caso che su 240 mila appartenenti ad essa, gli avvocati si contino sulle dita. Una delle frasi più famose di Leo Longanesi, del resto, tracciava un quadro che ci rappresenta in pieno, ancora oggi: “non è la libertà che manca: mancano gli uomini liberi”. Ecco, l’avvocatura italiana è questo: la libertà, per chi la voglia esercitare, è a portata di mano. Ciò che manca sono uomini che vogliano essere liberi.