“Morte dell’avvocatura di massa”: questo sarebbe stato un buon titolo per un Congresso serio dell’avvocatura. A distanza di quasi tre mesi dalla pantomima inscenata dai Consigli dell’Ordine in quel di Rimini, che aveva il solo scopo di far ratificare dai propri sudditi l’accordo raggiunto tra i padrini dei vari feudi circondariali italiani, volto alla cancellazione di OUA, ciò che resta è solo il vuoto. Il nulla, un brullo nulla, se si eccettuano gli abusi, gli affari, le vessazioni per la plebe e le indennità. Un’avvocatura asservita e complice rispetto al Ministro della giustizia in carica assiste impotente alla dissoluzione della professione liberale, in larga parte incapace di opporre alla normalizzazione del ruolo del professionista, un proprio disegno organico, una propria idea di giurisdizione.
Mancano le energie, questo è vero ed è innegabile. Manca la cultura e la comprensione di quello che sta accadendo in questi anni. La scomparsa dell’avvocatura di massa è un fenomeno epocale, paragonabile all’estinzione dei dinosauri. Così come ai grandi dominatori della Terra venne a mancare il cibo, probabilmente a causa di un meteorite che impattò con il nostro pianeta, all’incirca 65 milioni di anni fa, allo stesso modo oggi ai 240 mila avvocati italiani viene a mancare il reddito. E’ un processo che il regime dell’istituzionalizzazione forense osserva, preoccupandosi unicamente della propria sopravvivenza, immaginando un mondo privo di manovalanza, con maggiori praterie a disposizione di pochi capibranco. La costante riduzione di opportunità di guadagno per l’avvocatura di massa è cominciata già da molti anni. Gli indicatori non mentono. Nel mio studio sull’andamento del numero degli avvocati e dei redditi, una piccola cosa, mi preoccupavo di mostrare l’evidente correlazione tra il pil complessivo dell’avvocatura e l’aumento esponenziale dei suoi appartenenti.
Oggi per 240 mila avvocati non c’è spazio. Le risibili affermazioni di molti dinosauri in via di estinzione, che parlano di possibilità per il sistema di offrire sostentamento all’avvocatura di massa, vengono ogni giorno ridicolizzate dalla realtà. Non esiste più alcun primato del sapere dell’avvocato su quello comune. La banalizzazione del fenomeno giuridico, la creazione di diversi livelli di espletamento della professione, con la complicità della magistratura, è ormai un fenomeno deteriore e irreversibile. I ricchi e i potenti svolgono processi di puro diritto, mentre gli avvocati di massa, prevalentemente all’interno degli uffici dei Giudici di Pace, vanno al mercato, operando in un sistema in cui il diritto è spesso un interlocutore a cui si presta poca attenzione e dominano prassi compromissorie, che sviliscono il potere di creazione del reddito dell’avvocato, il quale viene ridotto a mero passacarte di istanze del cliente.
La moltiplicazione bulimica della produzione normativa, che in Italia ha assunto proporzioni gigantesche, non riesce ad essere intercettata dall’avvocatura di base, che continua ad occuparsi prevalentemente di contenzioso a scarso valore intellettuale aggiunto, offrendo prestazioni facilmente replicabili, e dunque condannandosi all’aggressione delle proprie fonti di guadagno, sia dalla concorrenza senza regole in auge all’interno della categoria, sia da quella messa in atto, con la complicità del regime dell’istituzionalizzazione forense, da figure professionali ibride, sempre più decise ad estromettere gli avvocati dalla gestione della torta. Assistiamo così al trionfo dei mediatori, dei consulenti del lavoro, dei commercialisti, dei tecnici, delle fabbriche di contenzioso seriale a basso costo e anticipo zero, che rubano spazio e reddito ad una categoria di sopravviventi che non ha più alcuna possibilità di competere con i suoi predatori.
E’ una mattanza, con numeri che non hanno ancora espresso la gravità del fenomeno. Nei prossimi anni lo sterminio dell’avvocatura di massa sarà compiuto. E’ un destino già scritto, non esiste alcun modo di impedirlo, anche perché le uniche soluzioni per accompagnare la transizione dall’avvocatura di massa ad una nuova classe forense, elitaria, benestante e forte, provengono dal sottoscritto, e sono ovviamente ignorate dalla quasi totalità degli avvocati italiani.
Se è vero infatti, come è vero, che l’avvocatura futura sarà composta da pochi soggetti, capaci di procurarsi reddito e lavoro in uno scenario radicalmente diverso da quello che ha attratto verso l’Eldorado i disperati degli anni 90, è anche vero che esistono provvedimenti che potrebbero salvare la vita di molti azzeccagarbugli in via di estinzione, garantendo una transizione il più possibile “morbida”, verso l’inevitabile scenario che accompagnerà l’esercizio della professione forense tra venti anni. Ho già parlato della inevitabilità della programmazione del numero di nuovi accessi alla professione. Si tratta del provvedimento più urgente e indifferibile di cui gli avvocati attualmente iscritti all’Ordine avrebbero bisogno ed ovviamente è un provvedimento che viene ignorato dal regime, che è ancora affamato di giovani vite da immolare all’altare delle specializzazioni, dei corsi per l’abilitazione alla professione, delle elezioni da vincere per avere arbitrati e mediazioni passate dai Consigli dell’Ordine. Un regime che mira alle indennità e che vuole gestire l’enorme mole di denaro generata dalla manovalanza forense come “Cosa Nostra”.
Una programmazione dei numero dei nuovi accessi alla professione darebbe ossigeno agli azzeccagarbugli moribondi, ovvero a quei colleghi che non riescono a trarre i propri guadagni da operatività ad alto valore aggiunto e non facilmente replicabili. Sarebbe una misura necessaria, ma non sufficiente. Occorre anche altro ed io l’ho puntualmente indicato, da anni, predicando nel deserto. Il danno punitivo e il patto di quota lite sono due elementi che un’avvocatura consapevole della propria fine avrebbe imposto alla politica, trovando anche la possibilità di saldare questi istituti al benessere collettivo. Non è un caso quindi, che il Consiglio Nazionale Forense, impegnato ad attingere ai soldi dei colleghi per farsi stipendi arbitrari, se ne sia completamente disinteressato, preoccupandosi invece che tutti i sudditi si assicurassero con le imprese amiche dei padrini. I punitive damages consentono all’avvocato di combattere contro lo strapotere dei soggetti forti, che generano le asimmetrie di massa, responsabili dei più gravi fenomeni di vessazione del cittadino. La bulimia della fenomenologia giuridica contemporanea infatti, determina una condizione di oggettiva impossibilità di confronto paritario tra il cittadino e le grandi imprese, da un lato, e la burocrazia statale, dall’altro. Questa impossibilità di difesa dallo strapotere dei grossi centri di produzione normativa, costringe i cittadini a muoversi in un universo giuridico di serie “B”, rinunciando spessissimo a far valere le proprie ragioni contro nemici che di fatto sono imbattibili. La legge non è mai stata uguale per tutti ed oggi in Italia lo è meno che mai.
L’introduzione dei punitive damages all’interno dell’ordinamento consentirebbe agli avvocati di andare all’assalto delle vessazioni, generando un riequilibrio sociale quanto mai necessario e invitando allo stesso tempo gli azzeccagarbubli in via di estinzione ad una riqualificazione del proprio operato, tale da garantirgli maggiori redditi, mediante la fornitura di prestazioni più difficili da replicare. Lo Stato, i grandi gruppi finanziari ed industriali, si troverebbero costretti a fronteggiare un rischio di “giustizia” che li costringerebbe a mutare radicalmente le politiche di aggressione e vessazione del cittadino inerme, e l’avvocatura tornerebbe ad essere uno strumento nelle mani della collettività, saldando gli interessi di parte della categoria con quelli della società.
Perché ciò avvenga è di fondamentale importanza che il patto di quota lite sostituisca i parametri, nel rapporto tra avvocato e cliente. La prestazione a basso valore aggiunto, liquidabile in modo seriale con pochi euro, costituisce un modello di esercizio della professione forense superato dalla storia. Fare tanto per guadagnare poco non vuol dire esercitare una libera professione, ma condannarsi ad una sorta di perenne sottoproletariato intellettuale e professionale: una forma di alienazione del professionista, che diventa ingranaggio, schiavo di decine e decine di udienze quotidiane, che gli fruttano pochi euro. E’ il trionfo del regime dell’istituzionalizzazione forense, che vuole una plebe che lavori a ciclo continuo, in modo da essere troppo occupata a sopravvivere per potersi permettere di pensare. E’ la normalizzazione della professione, la perdita di quelle facoltà e libertà, proprie del ceto intellettuale borghese, che facevano dell’avvocato, fino agli anni 80, un protagonista del pensiero sociale e politico italiano, mentre oggi il Presidente del Consiglio Nazionale Forense esprime una pochezza intellettuale e culturale per cui non lo intervisterebbero nemmeno su un giornalino scolastico.
Solo il patto di quota lite, ovvero quel processo per cui il professionista si impegna a scommettere sulla propria capacità di generare utilità concrete per il cliente, divenendo a pieno titolo imprenditore intellettuale, può salvare gli azzeccagarbugli dall’inedia che accompagna l’estinzione dell’avvocatura di massa. Una compenetrazione sempre più stretta tra avvocato e parte, che faccia rinascere un nuovo patto tra avvocati e cittadini, ridando finalmente fiducia alla nostra categoria, oggi giustamente vista come una pletora di inutili parassiti.
In ultimo, per restare sul piano generale, perché tanto ho già detto e scritto in questi anni e tanto ancora dovrò scrivere, per educare la mia categoria alla sopravvivenza, occorre rilanciare il processo di puro diritto,contrapponendolo alla nascita di un moderno diritto collaborativo. Le ADR all’italiana sono un colossale fallimento, che è servito solo a dar da mangiare a un sottobosco di mediatori, quasi sempre avvocati mediocri, ma non hanno in alcun modo contribuito al miglioramento delle condizioni degli avvocati italiani. L’avvocato è l’unica figura che deve occuparsi di diritto e diritti. Occorre un’aggressione violenta, una reazione decisa, contro tutte le professioni e le figure che ci hanno rubato reddito ed operatività. Servirebbe cacciare i non avvocati dalla gestione della fenomenologia giuridica, ma per far questo occorrerebbe rompere il patto tra il regime e la politica italiana, in cui gli avvocati sono merce di scambio.
Stanno arrivando i robot e la replicabilità delle prestazioni a basso valore aggiunto ucciderà l’avvocatura di base, nel giro di cinque anni. Il regime vende le vite dei colleghi, cercando di garantire ai propri appartenenti un modello di produzione di reddito strettamente legato alle utilità offerte dalla politica e dagli incarichi ottenuti per mezzo delle cariche ordinistiche. La politica non vuole un’avvocatura forte e libera, come contraltare degli abusi dei soggetti economici e finanziari dominanti. L’avvocato può essere elemento di libertà per il paese solo se ritorna libero professionista, forte, ricco ed intellettualmente all’avanguardia. La scomparsa dei dinosauri è un futuro che ha già messo radici nel presente. Nessuno si salverà, sarà lo sterminio. Saranno pianti e stridore di denti. Solo i provvedimenti e le direttrici che ho indicato in questo articolo, e in tanti altri articoli, passati a futuri, potranno garantire ai moribondi un salvacondotto verso la sopravvivenza. Diversamente non ci saranno sopravvissuti.
Penitenziagite. Downshifting is the way.