Sul cosiddetto “equo compenso” il regime dell’istituzionalizzazione forense sta investendo moltissimo, in termini di propaganda presso i propri sudditi. Ovviamente la norma, non facendo altro che reintrodurre i minimi tariffari, dovrà passare al vaglio della normativa europea, sotto il profilo delle illegittime restrizioni della concorrenza. Ci sono però altri aspetti di questa vicenda che sono interessanti, ed a mio parere possono riassumersi, più o meno, in due questioni principali:
a) in primo luogo, nessuno si è dato la pena di rispondere ad un’obiezione che pure mi è capitato di fare, in sede di confronto sul tema con la collega Fernanda Ambrogio, che se ne era occupata in OUA. L’obiezione è la seguente: se il principio che mira a difendere l’equo compenso è quello che impone dei minimi tariffari per le prestazioni offerte in favore di banche, assicurazioni, ed enti, per quale ragione lo stesso principio non deve valere per i privati cittadini?
Perché quegli avvocati, che sono la maggioranza, che non hanno la ventura di lavorare sulla base di convenzioni con soggetti che offrono incarichi in serie, devono potersi trovare di fronte ad incarichi offerti a condizioni “inique”, mentre i Consiglieri dell’Ordine e quelli seduti al Consiglio Nazionale Forense si preoccupano di tutelare i “loro” affari, imponendo ai “loro” clienti di versare a “loro” onorari in grado di soddisfare i “loro” appetiti?
Insomma, se il compenso dell’avvocato deve essere “equo” e se nessun cliente deve poter “taglieggiare” un avvocato, imponendogli di scegliere tra il lavorare a prezzi da fame o il non lavorare, questo principio deve valere per tutti gli avvocati e per tutti i clienti. Diversamente la norma non andrebbe definita “equo compenso”, ma “equo compenso per i Consiglieri ammanigliati con i parlamentari italiani”, giusto?
b) se dunque l’Italia voterà per la reintroduzione dei minimi tariffari per gli avvocati, ritenendo che un limite minimo ed invalicabile per l’offerta di una prestazione intellettuale non sia una norma lesiva della libera concorrenza, ma rispetti la dignità dell’avvocato lavoratore, si potrà continuare a sostenere, accampando la normativa europea di riferimento, che una restrizione ai nuovi accessi alla professione, in modo da non generare eccesso di offerta e conseguente dumping tra avvocati, sia una misura restrittiva della libera concorrenza?
Staremo a vedere. Intanto, per offrire ai colleghi alcuni riferimenti sul tema, riporto due miei precedenti lavori, che possono offrire riferimenti normativi e politici che spero siano interessanti: il primo è il testo di un intervento, da me tenuto a Napoli, proprio sull’equo compenso, il secondo è un link che affronta il tema degli avvocati in concorrenza distruttiva tra di loro.
Equo compenso
All’interno dell’avvocatura si parla da qualche mese di “equo compenso”, ovvero di una proposta di legge tesa ad impedire che offerte di lavoro fatte agli avvocati siano manifestate con proposte di compensi considerati bassi, indecorosi e lesivi della dignità del lavoro del professionista.
Il tema impone di ritornare alla rappresentanza politica. Ci chiediamo infatti, in primo luogo, chi possa legittimamente articolare una tale proposta e sottoporla alla politica, per conto dell’intera avvocatura. L’Ordine Forense infatti non ha tale facoltà: gli Ordini Circondariali, ex art. 29 della 247/2012 non possono formulare proposte di legge, né può farlo il CNF, che ex art. 35 lettera q della stessa legge, può esprimere unicamente pareri su proposte e disegni di legge che riguardino, anche indirettamente, l’avvocatura, ma solo su richiesta del Ministro della Giustizia. L’unico Organo che, in nome dell’avvocatura, può formulare proposte autonome, è il Congresso Nazionale, ai sensi dell’art. 39 della 247/2012.
Ma al di là del riconoscimento necessario per sottoporre alla politica nazionale questo provvedimento, cosa si può dire circa il merito? Alcuni elementi li offre proprio la nostra legge professionale, che all’art. 13, prevede che l’avvocato possa svolgere l’incarico anche a titolo gratuito. In aggiunta, al n. 3, l’art. 13 dispone che la pattuizione dei compensi sia libera.
La libertà nella pattuizione del compenso infatti è un elemento che esalta l’autonomia del professionista. Le possibilità di svolgere incarichi a qualsiasi condizione economica, o per ragioni di interesse professionale verso l’incarico, o per poter fidelizzare il proprio cliente, o ancora, perché un caso venga ritenuto meritevole di approfondimento, magari perché potenzialmente in grado di generare una pronuncia nomofilattica, sono tutte prerogative connaturate allo svolgimento della professione.
L’Art. 2 della legge professionale prevede: “l’avvocato è un libero professionista, che in libertà, autonomia e indipendenza svolge le attività…ecc. ecc.”
Proprio per questo, nessuna proposta di onorario può dirsi “vessatoria” per un professionista davvero libero, perché egli può sempre scegliere di rifiutare, come prevede l’Art. 14 della legge professionale.
Si aggiunga che le tariffe minime (tale è in definitiva l’equo compenso, comunque lo si voglia chiamare), sono universalmente ritenute restrittive della concorrenza, e che per questo sono e saranno sempre più bandite dagli ordinamenti contemporanei.
Onestà impone però di trattare anche le condizioni di fatto: molti, troppi avvocati non sono né liberi, né autonomi, né indipendenti, è vero. Il mercato stritola i più deboli, quelli che hanno difficoltà a dire “no”, quelli tra noi che fanno fatica a tirare avanti, e sono decine di migliaia. Che fare? Limitarsi a dire a questi colleghi: “vai a casa, l’articolo 2 dice che non puoi fare l’avvocato, perché non sei libero”, è una risposta politicamente indifendibile, è evidente. E’ per questo che occorre analizzare seriamente la crisi dell’avvocatura di massa e trovare soluzioni a un processo che ha chiari responsabili.
Negli ultimi anni un’alleanza sempre più evidente tra politica ed istituzioni forensi ha agito con l’ossessiva ricerca della deflazione giurisdizionale e con l’imposizione di vessazioni ed oneri operativi tendenti a rendere la professione sempre meno “libera”. Questo, unito alla legge della domanda e dell’offerta, sta affamando molti dei circa 240 mila avvocati oggi presenti in Italia. E’ per questo che negli ultimi anni è ritornato ciclicamente in auge il tema del “numero” degli avvocati, che porta chi lo propone ad attirarsi superficiali ire di colleghi che non accettano di discuterne.
A tutto questo occorre aggiungere dell’altro. Molto presto infatti, oltre alla deflazione della giurisdizione pubblica e ai vincoli a misura di potente, noi avremo nuovi nemici: i robot, che lavoreranno nello studio legale dell’avvocato “X”, svolgendo ciascuno il lavoro di cinquanta avvocati, esattamente come negli USA fa “Ross”, il nostro collega by IBM, già operativo presso la Baker & Hostetler.
Cominciamo dunque a ragionare sugli effetti del capitalismo cognitivo, che depaupera il valore della nostra conoscenza, in ragione della gratuità con cui essa si diffonde e chiediamoci se il nostro numero e il nostro benessere siano compatibili con la direzione politica e tecnologica verso cui sembra evolversi la società. Immaginiamo rimedi possibili, perché le innovazioni alle porte renderanno sempre più accessibili, e a costi sempre minori, le nozioni che per secoli abbiamo legittimamente venduto ai nostri potenziali clienti. Tutto ciò non sarà indolore, ma crea il rischio di generare la più drammatica perdita di valore del lavoro mai osservata nella storia dell’umanità.
Uno studio indipendente del “Pew Research Center”, realizzato nel 2014 – ma ce ne sono molti altri – vede un gran numero di esperti mondiali equamente divisi sugli effetti che l’interazione della robotica e lo sviluppo delle reti di trasmissione del sapere avranno sulla morte dei nostri attuali lavori, già a partire dal 2025. Le professioni intellettuali, l’avvocatura, che forse erroneamente in questi anni si è creduta immune, non saranno risparmiate. Presto un lettore ottico leggerà la domanda della signora Y, e le fornirà in tempo reale un parere legale inappuntabile.
Non è fantascienza, è la realtà e non c’è politica che tenga, non è questione di destra o sinistra. C’è chi parla del 2025 e chi, più ottimista, del 2040, ma in ogni caso, si tratta di processi già in atto. Il lavoro, come fonte di reddito per le società di massa, rischia davvero di svanire. Qualcuno crede che tali scenari, che mettono in discussione ben più che l’avvocatura, possano essere contrastati con le tariffe minime? Difficile da credere.
Appare piuttosto urgente ripensare l’avvocatura di massa ed adeguarla progressivamente, anche nel numero, alle esigenze della contemporaneità, per traghettare la categoria verso scenari ineluttabili. La restrizione ai nuovi accessi, in ragione dell’equilibrio del sistema giustizia, è una misura di somma urgenza ed è la più importante per la nostra sopravvivenza. Per far questo ci occorre un governo politico unitario, forte, giovane, competente, coraggioso, che sappia guardare avanti. Le battaglie di retroguardia, nel 2016, non sono più giustificabili. Diversamente, il futuro non costituirà per noi tutti un’opportunità da cogliere, ma un killer a cui sarà impossibile sfuggire.
Napoli, 31 maggio 2016
Avv. Salvatore Lucignano