Sempre più spesso la dimensione fisica dei beni cede il passo alla natura immateriale delle merci. Il dibattito sulla natura dei servizi legali è aperto, tra chi parla di professione e chi di imprenditorialità, tra chi impone uno studio reale e chi già lavora in quelli virtuali.
Uno dei requisiti che determinano l’accertamento dell’esercizio continuativo della professione forense è l’uso di locali e di almeno un’utenza telefonica destinati allo svolgimento dell’attività professionale [1]. Ciò significa che l’avvocato del futuro deve dare allo Stato la dimostrazione di svolgere la propria attività attaccato a unadimensione fisica, e che lo studio virtuale, concetto ormai pienamente accettato in molti ambiti professionali e lavorativi, non trova posto nell’assetto oggi vigente in Italia.
Eppure è proprio la progressiva perdita di valore del “luogo” di lavoro, la capacità di reinventare rapporti tra cose e idee, una delle chiavi di volta della professione intellettuale che verrà. L’avvocato di una volta, legato alle carte, alla segretaria, a riti che prevedevano incontri in luoghi fisici (primo tra tutti il Tribunale), cede il posto a un conoscitore di norme, che può svolgere il suo compito di risolutore di problemi anche in modo totalmente svincolato dal proprio studio.
Insomma, oggi per essere avvocato serve altro, e la struttura, lungi dall’avere una funzione di mezzo di produzione della prestazione, è più un fattore che può aumentarne il valore commerciale, diventando un elemento di marketing, un fattore di attrazione di clienti. Ecco perché l’assenza di una dimensione virtuale dello studio dalle norme che regolano l’esercizio della professione appare come un ulteriore schiaffo ai giovani avvocati, figlio di una visione arcaica, capace solo di cristallizzare l’esistente, piuttosto che di guardare a ciò che ci aspetta.
Ovviamente il contraltare di questa assenza è che le previsioni necessarie ad inquadrare lo studio virtuale nella fisiologia e nella legge, sono oggi del tutto insufficienti. La normativa sulla privacy, lo scambio di intermediazione legato a prestazioni ibride e non codificate, persino i rapporti tra elaborazione di pareri e commerciabilità dei provvedimenti ottenuti in giudizio, scontano un’arretratezza che la nostra legge professionale [2] non può assolutamente colmare. E’ il prezzo di un disegno nato già morto, che non contiene al suo interno nessuna possibilità di essere emendato, ma va totalmente ripensato, adeguandolo ad una realtà che non ha niente in comune con quanto previsto sulla carta.
Lo studio virtuale non ha bisogno di una stanza dedicata alla professione, non ne individua alcuna, ha esigenze del tutto diverse, connesse alla capacità dell’avvocato di rispondere a bisogni che vanno oltre la sfera classica della giurisdizione, e legano la professione ad una interdisciplinarietà quasi doverosa. L’avvocato legato alla dimensione fisica del lavoro, oltre a sopportare, specie se giovane, una serie di costi insostenibili per l’esercizio dell’impresa intellettuale, si trova vincolato ad un modo di presentare se stesso che non ha alcun appeal commerciale, e rischia di non vedere i frutti dell’investimento realizzato con l’acquisizione delle nozioni e del titolo di avvocato.