di Avv. Salvatore Lucignano e Avv. Antonella Matricardi
Parte Prima
Colui che è maestro nell’arte della vita, non distingue tra il suo lavoro ed il suo tempo libero, ma semplicemente persegue la sua visione dell’eccellenza, qualsiasi cosa stia facendo. Lasciando agli altri decidere, se sta lavorando, o semplicemente giocando.
Intro
Immaginiamo la nostra vita a un bivio.
Di fronte abbiamo, da una parte la realtà esistente di una carriera economicamente soddisfacente ma vincolante e stressante con i suoi ritmi incalzanti, dall’altra la possibilità di un’esistenza più appagante anche se meno retribuita, capace di privilegiare gli affetti prima marginalizzati dai sensi di colpa, finalmente liberi dalla condizione di doversi permettere un consumo ad oltranza per poi lavorare forsennatamente, proprio per mantenere i propri consumi.
Se la scelta ricade sulla seconda delle due prospettive, allora vuol dire che siamo orientati verso il downshifting e che, come potenzialidownshifters, stiamo per infrangere i codici preesistenti di vita.
Il downshifting o la semplicità volontaria
L’esemplificazione iniziale corrisponde liberamente alla definizione che del termine downshifting ha acquisito nel 2007 il New Oxford Dictionary, riprendendo un concetto per la prima volta espresso nel 1994 in uno studio pubblicato sul Trends Research Institute di New York City sull’acquisita consapevolezza, tra fasce di professionisti affermati e manager in odore di brillantissime carriere, del fattore progressivamente avvilente del vivere secondo lo schema meccanico del “lavorare per produrre, per guadagnare, per pagare, per pretendere e infine, rigorosamente, consumare”.
L’anglismo può tradursi nelle locuzioni “muoversi verso il basso” o più approssimativamente “scalare le marce, rallentare”. La semplicità volontaria o ridimensionamento significa immergersi in uno stile di vita che non accetti passivamente le priorità del lavoro e del profitto su tutto il resto, ma che, nel recupero di valori dichiaratamente inconcludenti in una società dai frenetici modelli economici, scelga di produrre meno e di ottimizzare il senso del lavoro, arginando stimoli ansiogeni da stress in cambio della centralità delle relazioni, degli affetti, banalmente persino del proprio tempo libero.
Penitenziagite. Downshifting is the way
Il downshifting è anche una sfida. Ridurre volontariamente il proprio orario di lavoro e stipendio, lasciare una prestigiosa carriera in cambio di una vita a dimensione d’uomo e non di clone per dedicare più tempo alla famiglia e alle proprie passioni è una scelta coraggiosa che una società insidiosa di ferree e sicure regole economiche non comprende.
L’assioma di un benessere sfrenato ma dipendente dai consumi non ammette la sua più grande debolezza, l’assenza di libertà, finendo per demonizzare artatamente l’arte di scegliere sè stessi con il disprezzo per quelle che ritiene solo irraggiungibili utopie.
Di esempi ne abbiamo, sempre più diffusi anche in Italia.
Giovani o maturi manager con incarichi ai massimi livelli che improvvisamente e da un giorno all’altro decidono di abbandonare una vita di successi professionali e lauti guadagni, per non implodere.
Il downshifter è circondato dall’ostilità dell’ambiente che si prepara a lasciare, dalla diffidenza di chi rimane e lo guarda per un verso come un incosciente, per un altro come un fanatico irresponsabile. La scelta, perlomeno quella iniziale, è spesso la solitudine, il riappropriarsi degli spazi temporali che altri sono soddisfatti di non poter dedicare a se stessi e che giudicano come perdite di tempo, perché improduttive.
Cambiare stile di vita significa anche abbandonare coattive certezze di percorsi radicati ed erodere i risparmi accumulati o le rendite a disposizione, per ricostruire una nuova, propria economia. Si tratta di scelte non facili, specie per chi ha legami o famiglie a cui dare conto, perché il downshifting può portare a dover improvvisamente ridurre il benessere socialmente standardizzato e fino a quel momento consentito all’individuo integrato.
Le ultime generazioni di professionisti e lavoratori sono passati dal rampatismo più deteriore, a cui sacrificare tutto, a una forma di rifiuto per quello che è stato conquistato, avvolti in un meccanismo che, fortunatamente, prima della famosa implosione, ha risvegliato consapevolezza e reazione.
Parte Seconda
Downshifting, slow money e sharing economy
Il downshifting non si traduce in una fuga dalla realtà o in pratiche ascetiche. E’ una formula di mutamento sociale che associa, all’attuale crisi imperante, resilienza e rigenerato gusto di vivere, in risposta a una società che ci vuole sempre più iperattivi e iperconsumisti, non importa se freneticamente infelici.
Al di là dei profili filosofico-esistenziali, che riguardano la sfera di pensiero di ciascuno, e possono non sfociare in comportamenti socialmente osservabili, il downshifting, come comportamento visivamente misurabile, è una realtà, sempre più diffusa anche in Italia, che negli ultimi anni ha visto la conversione (stimata da Datamonitor, agenzia londinese che si occupa di ricerche di mercato) di circa 16 milioni di persone. Un fenomeno di massa che sembra muoversi su un terreno affine alle teorie di quegli economisti che si dicono convinti assertori del modello della decrescita felice, visti i deludenti esiti del progresso, così come inteso nel trittico crescita-produzione-consumo, che appare a molti ingiustamente mitizzato.
A livello macroeconomico il downshifting è prima di tutto profondamente interconnesso con nuove formule di sviluppo, quali la slow money e la sharing economy.
Da una parte l’investimento paziente, che destina capitali alle imprese a vocazione ambientale, secondo un nuovo modello che coniuga gli ideali del giusto guadagno al business delle piccole realtà locali; dall’altra il senso dell’economia condivisa, attenta all’ecosostenibilità, al consumo di energia, al risparmio contro il superfluo e gli sprechi.
Velleitarismi? Tendenza all’astrazione?
Non proprio.
L’uomo moderno riscopre le sue migliori attitudini per affrontare un mondo orientato alla competitività più spietata, ma paradossalmente senza quegli strumenti dalla stessa pretesi e inacerbiti, sconvolgendo il diktat frenetico di quella finanza spregiudicata che non ha tempo, né può distrarre la propria attenzione verso principi etico-sociali.
Concretamente le attività possono essere molteplici, tutte orientate a una produzione imprenditoriale di qualità, attenta al territorio e al capitale umano e sociale; le dimensioni sono preferibilmente locali ma soggette ad espansione, secondo relazioni e progettualità diffuse tramite lo strumento dell’interattività in rete, comunque in simbiosi con le potenziali rivoluzionarie della tecnologia digitale.
Il senso, la filosofia che ricollega l’economia condivisa e la finanza paziente al tema del downshifting è evidente: in antitesi ad un sistema finalizzato a massimizzare i rendimenti, a costo di sacrificare autentiche priorità, si sta imponendo la valorizzazione di uno stile di vita tutt’altro che impossibile, conscio delle potenzialità di un’economia non essenzialmente speculativa, bensì centralmente strumentale al benessere esistenziale.
Downshifting e lavoro agile (smart working)
Che il mondo del lavoro sia caratterizzato da una stasi storica, fondamentalmente perché privo di certezze e delle garanzie del passato, è evidente.
Altrettanto evidente è che alle attuali difficoltà a livello di produttività e competitività si abbinino malesseri individuali ormai comuni: la profonda insoddisfazione della stragrande maggioranza dei lavoratori che nasce dalla mancanza di motivazione e dallo scarso interesse al raggiungimento degli obiettivi e risultati aziendali.
La consapevolezza, sempre più strisciante, di percepire una retribuzione inadeguata o di svolgere un’attività non rispondente alle proprie aspettative, ma soprattutto di una routine professionale, stretta tra relazioni tutt’altro che stimolanti e gratificanti e di una postazione lavorativa opprimente, ha maturato l’esigenza di una maggiore libertà nella scelta del luogo e del tempo da dedicare al lavoro.
Indipendenza e mobilità sono le risposte che ridisegnano una dimensione lavorativa eticamente soddisfacente secondo esigenze, ambizioni personali e professionali che ben possono tradursi nel cd. lavoro agile o smart working. La lenta ma crescente trasformazione digitale del lavoro, le tecnologie innovative, hanno cambiato il modo con cui accedere alle informazioni e ai servizi, rendendo possibili scenari fino a qualche anno fa impensabili, all’insegna di un’ottimizzazione degli ambienti di lavoro. Mobilità e collaborazione portano ad una crescita della produttività e della operatività degli individui e ad una maggiore flessibilità rispetto all’agonia del “posto fisso”.
Ma cosa vuol dire smart working ?
Vuol dire che al controllo, alla gerarchia, alla rigidità e all’imposizione di luoghi e orari si preferisce l’autonomia, la flessibilità, la responsabilizzazione circa i risultati, la valorizzazione dei talenti, secondo una filosofia gestionale che privilegia meritocrazia e fiducia, con incentivi premianti per i risultati ottenuti.
Le tecnologie innovative consentono il lavoro mobile, slegato da canoniche e metodiche ambientazioni, per consentire di comunicare, incontrare clienti, fare riunioni senza dover essere necessariamente in ufficio; questo, grazie a infrastrutture VoiP, strumenti di webconference e instant messaging che, anche grazie a dispositivi mobili e social network, facilitano il lavoro da remoto.
L’ottimizzazione degli spazi determina benefici per l’ambiente, riducendo tempi e costi per gli spostamenti. La scelta degli orari induce ad un minore stress del lavoratore, registra un aumento della produttività, combattendo il fenomeno dell’assenteismo.
Non poche grandi aziende (prima fra tutte la Microsoft) hanno capito che il ricorso al lavoro agile può essere una soluzione per attrarre lavoratori qualificati, quindi migliori, sostituendo ai tradizionali benefit di carriera una migliore conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Attenzione: “state per diventare obsoleti” [1]. Il lavoro automatizzato
Introducendo iniziaticamente il delicato tema dell’intelligenza artificiale, qualcuno ricorderà sia il “vecchio” supercomputer di bordo “Hal 9000”, di kubrickiana memoria, sia i suoi parenti androidi più recenti, Ash e Bishop, vivaci comprimari nella saga di Alien.
Fantascienza, si dirà. Colta, ma pur sempre fantascienza.
Tralasciando le nefaste conseguenze delle disfunzioni vissute da Hal e Ash, vale la pena sottolineare come tali macchine abbiano rappresentato, nella allora remota prospettiva di un futuro lontanissimo, le prime, affascinanti rappresentazioni di intelligenza artificiale.
Eppure il presente è sempre e solo ad un passo dal futuro, ma considerato che in fondo, la prerogativa umana più curiosa è la distrazione, non è azzardato pensare che, dato che qualcuno sta già utilizzando tecnologia e robotica per sostituire al lavoratore in carne ed ossa quello automatizzato, il famoso passo “così lontano, così vicino” sia stato compiuto e che non ce ne siamo ancora resi conto.
La scoperta dell’intelligenza artificiale, della macchina che si comporta umanamente, che apprende informazioni fino a svolgere le stesse funzioni della mente naturale, non è più fantascienza, ma è diventata realtà.
Passando, molto semplicemente, per la povera cassiera sostituita al centro commerciale dal sistema selfCheckout (che tanto piace a consumatori e aziende perché è più veloce, consente risparmio e asseconda il bisogno di privacy negli acquisti), si arriva, ad esempio, alle driverless car, figlie di un progetto di Google, coltivato fin dal 2009, che utilizza la tecnologia per creare autovetture autonome, che saranno commercializzate, proprio a partire dal 2016.
L’intelligenza artificiale quindi trova lavoro e si dimostra in grado di sostituire l’uomo nelle occupazioni più tradizionali, che fino a ieri sembravano di stretta prerogativa umana. Questo significa che nei prossimi vent’anni i computer, che già possono decodificare contesti, apprendere e adattarsi a nuove informazioni, saranno in grado di ridefinire il mondo dell’occupazione, condannandolo all’automatizzazione.
Se da un lato l’immagine dello spietato Hal 9000 che ci sottrae lavoro è inquietante e sembra prefigurare uno scenario futuro di irreversibile disoccupazione, dall’altro la previsione di un utilizzo socialmente benefico delle macchine (pensiamo all’ipotesi di androidi usati per gestire allarmi in centrali nucleari incidentate), equilibra e lenisce le paure per il rischio dell’inoccupazione legata alla diffusione dei robot umanoidi.
Ecco che accanto allo spettro delle fabbriche deumanizzate, si prospettano vere e proprie aree destinate alla robotica collaborativa e di servizio, nelle quali la macchina non è concepita per sostituire l’uomo, ma per facilitarne il lavoro.
Quali sono quindi le contromisure, se comunque la rivoluzione è in atto e genera apprensione?
Ryan Holmes (fondatore, tra l’altro, di Hootsuite) illustra una delle possibili strade da percorrere in un articolo pubblicato nel marzo scorso dalla testata Wired, dal titolo “I robot stanno arrivando, il tuo lavoro è al sicuro ?”
L’articolo mostra scenari che riguardano anche le professioni intellettuali, poiché i droni che effettuano consegne e i robot impegnati nelle catene di montaggio non sono i soli organismi cibernetici che stanno entrando nel mondo del lavoro, ma anche i software e i Robot “pensanti” si preparano ad invadere le nostre società, con ricadute facilmente immaginabili per le attività dei colletti bianchi.
Per evitare che questa evoluzione trovi impreparati milioni di liberi professionisti, Holmes suggerisce “… di investire nello sviluppo delle competenze che una macchina non può garantire, come la creatività, il problem-solving, l’ingegno e altre capacità di “ordine superiore”. Reinventare il nostro sistema scolastico attuale. Coltivare l’eccezionalità e tutte quelle abilità tipicamente umane.”
Facile, se non fosse per l’enorme incidenza che nella vita attuale ricopre il valore del denaro, nei termini di accumulo sfrenato per alcuni e di semplice, ma indispensabile strumento di sopravvivenza per altri.
Del resto, continua Holmes “in un mondo nel quale le intelligenze artificiali e i robot renderebbero la disoccupazione la norma e non l’eccezione, le persone avrebbero comunque bisogno di mangiare. […] Lasciare le masse in balia della tecnologia, senza un impiego e in stato di povertà, non è la ricetta per un futuro roseo”.
La soluzione del reddito di vita prospettata da Holmes è coerente alla filosofia del downshifting. Non una manovra di welfare o assistenzialismo, ma un modo per evitare un’economia repressa e stagnante, appiattita dalla mancata circolazione di denaro. Secondo esperienze del genere, già attuate negli anni ’70 in Nord America, la percezione di un reddito di vita non ha condotto a pigrizia e indolenza, ma a un miglioramento delle generali condizioni di vita, con un calo minimo delle ore lavorative, finendo piuttosto per favorire le relazioni, la realizzazione personale, una maggiore attenzione per la salute fisica e mentale.
“Se i robot un giorno ci rubassero il lavoro, dandoci però alcune di queste cose in cambio …” conclude Holmes, in un’estrema declinazione della filosofia del downshifting “potrebbe non essere un così brutto affare, dopotutto”.
Per accogliere simili prospettive però, la concezione di lavoro non deve rimanere immobile, condizionata da arcaici sistemi, ma cambiare, evolversi, progredire nell’acquisizione di nuove competenze, senza rifiuti ideologici, né preconcetti di sorta.
[1] – “I robot ti ruberanno il lavoro, ma va bene così”, Federico Pistono, 2013
Downshifting e avvocatura.
La differenza tra lavoro produttivo ed improduttivo è un concetto che la dottrina economica classica ha ampiamente sviscerato. La crisi del lavoro intellettuale ed artistico, nella società capitalistica, parte da lontano, e dunque un imprenditore intellettuale che oggi voglia sfidare la contemporaneità non può assolutamente dolersi di non riuscire a tradurre in plusvalore molte o alcune delle sue attività, ma deve piuttosto interpretare al meglio le possibilità offerte dal cambiamento. Il downshifting insegna a considerare la perdita come un’opportunità. E’ un concetto che a molti appare quasi provocatorio, ma se si riflette con più calma sull’evoluzione della società contemporanea, non si potrà che convenire che quello che per molti decenni è stato un dogma quasi intoccabile, ovvero: “più è meglio”, sta vivendo un drastico ridimensionamento, quale paradigma capace di guidare l’agire individuale più proficuo.
La crisi dell’avvocatura italiana può dunque essere letta in chiave classica, e paradossalmente improduttiva, oppure sotto lo sguardo del downshifting, come un’opportunità. E’ quello che cerco di trasmettere ai miei colleghi, quando parlo della necessità di approfittare del ridimensionamento della fenomenologia giuridica tradizionale, per trasformare l’avvocato 3.0 in un operatore di soddisfazione sociale, mediante nuove forme di rapporto con l’oggetto della nostra azione, e conseguenti nuove modalità di remunerazione del nostro lavoro. Una maggiore consapevolezza dei meccanismi che consentono l’allocazione del plusvalore può salvare il borghese vittima della crisi dalla miseria, e trasformarlo in avanguardia, recuperando la sua funzione di elemento cardine dei processi sociali, ed aiutandolo a monetizzare, o comunque ottimizzare, il lavoro produttivo svolto.
Ciò che dunque ci tocca comprendere, al di là dell’aspetto lineare della nostra parabola, è che la qualità dell’agire, soprattutto in ambito di professione intellettuale, è oggi infinitamente più importante della sua quantità. In altri termini, l’avvocato deve oggi rispondere al bisogno di divenire elemento propulsivo di una nuova sfera dei diritti, ridefinendo in chiave autonoma, distinta e distante dalla magistratura e dalla politica, i target di equilibrio che segnano il successo nelle proprie attività.
Tutto ciò non può avvenire se l’avvocato non acquisisce una coscienza di classe, perché oggi, più che mai, solo una dimensione multipla del nostro operato, in chiave politica e professionale, può realizzare l’accrescimento delle nostre utilità. L’avvocato è chiamato a costruire il campo in cui giocare, e non può limitarsi a giocare, sperando di portare a casa un bottino appagante, se di disinteressa dei confini del suo campo, se non li espande, se non contribuisce a creare vie per arrivare a giocare in ogni angolo del campo, e persino oltre, verso territori inesplorati.
Il ruolo di intermediatore di bisogni, di giureconsulto, di advisor del cittadino, ma allo stesso tempo la capacità di divenire interlocutore credibile dello Stato di diritti, fa dell’avvocato 3.0 il momento catartico dell’avvocatura contemporanea, ne costituisce e prefigura le uniche possibilità, in sintonia con la dimensione problematica, qualitativa ed imprecisa, che segnerà il concetto di ricchezza nel prossimo futuro.
Questo è ciò che dobbiamo sforzarci di essere, e se non sapremo farlo, la crisi avrà buon gioco nel ridurci all’irrilevanza sociale, culturale, e reddituale.
Penitenziagite. Downshifting is the way.