Scrivo di getto, tra una querela ed un disciplinare, mentre penso a mia figlia, al lavoro, alla dieta, al Prof. Bellavista. Penso anche all’avvocatura, a questo enorme corpaccione senza più un’anima, posto che l’abbia mai avuta, e mi chiedo perché alcuni colleghi, tra cui anche il sottoscritto, provino con tanto impegno a cambiarla. Stamane sono un turbinio di pensieri disordinati e la mia prosa, già normalmente modesta, ne risentirà senz’altro. Ho il terrore che, nel praticare la lingua parlata, i miei articoli possano essere infarciti di strafalcioni grammaticali e sopperisco a questa fobia citando in mente il mio amato Dick Feynman, quando parlava delle regole del linguaggio come di convenzioni senza senso: “che ti importa di quel che dice la gente?”
Poi, quando provò a spiegare alcune teorie scientifiche a colleghi in odore di Nobel, utilizzando i “suoi” simboli, quelli che aveva inventato lui, per indicare le funzioni matematiche, ricevendo in cambio facce lunghe e disorientate, persino il grande Dick capì che occorreva tornare alle convenzioni.
Scrivere è un pò vincere il terrore delle parole e delle frasi lunghe, perché in fondo a nessuno piace non essere capito. Immagino che ognuno di noi vorrebbe comunicare e sapersi spiegare, per essere più in sintonia con questo pezzo di mondo che ci riguarda, ma non è facile e spesso, quando usiamo un gergo difficile, lo rendiamo ancor meno facile. Rincorrere il filo dei pensieri, specie quelli disordinati, è una continua tensione, tra il sospetto di dar sfogo ad un bisogno di riconoscimento dell’ego e l’aspirazione a fare qualcosa che lasci un segno, che possa indicare una via. La fatica dello scrivere è sostanza della scrittura. Il tempo trascorso a cercare di ordinare le idee è un viaggio nel caos dei riferimenti, in cui l’enorme pentolone messo a bollire, stufa e ammorbidisce, mischiandole, esperienze, ricordi, parole, volti, tutto insieme.
L’avvocatura e una domanda, ricorrente: “perché lo fai?” Un amico risponderebbe, sorridendo, che potrei dare milioni di ragioni per giustificarmi, tutte false, ma che in realtà sono così, sono cattivo e non ho voglia di cambiare.
Avvocatura e Napoli. Sono cresciuto più De Crescenzo che Eduardo, più con Bud Spencer che con Totò. Napoli per me è un materno modo di essere, connaturato alle contraddizioni che mi porto dentro e che a volte, senza argini, butto fuori. Una città che è centro del mio universo, da cui si dipana un’azione sicuramente irrilevante per quello che c’è fuori, per il vero universo, ma che comunque non può rinunciare a spiegarsi, per chi vive il tutto come una necessità. Napoli e l’avvocatura napoletana. Un altro luogo senza più anima, senza una precisa identità, senza personaggi di spessore, che possano e vogliano lasciare un segno, assumere un comando, una guida. Napoli deve essere il centro di una rinascita democratica, non solo per l’avvocatura italiana, ma per l’Italia, nel suo insieme. La città partenopea incarna appieno quello che siamo, la contemporaneità. Siamo la contraddizione fatta regola, il compromesso elevato a sistema, la voglia di andare avanti, nonostante le difficoltà. Penso a Napoli e alla napoletanità che serve come a un suono popolare, tagliente, ritmato, che travolge l’ordine con un disordinato danzare.
Ci manca tutto questo. Vengono meno, nella nostra straordinaria città, le culture capaci di rimettere Napoli al centro del processo di rilancio del paese. Abbiamo perduto questo spirito anche nel mestiere dell’avvocatura, ormai travolta dalla mediocrità, affidata a rappresentanti privi di brio, personalità, carisma. Non mi rassegno a che Napoli e l’avvocatura napoletana siano questo. Sogno un’altra cosa, un riappropriarsi di radici profonde, ma declinate finalmente in modo proficuo, il superamento della retorica, la voglia di diventare Re, non di restare Viceré.
Il professore di Vesuviano lo diceva: l’omm che uccide o’malacarne…adda essere omm mio. Ancora cinema, ma nulla come il cinema ha saputo raccontare la realtà, dicendo ciò che non si poteva dire, ma che tutti vedevano, con un linguaggio in grado di rappresentare, giungere oltre le sfere della ragione, unire e mobilitare. Forse il calcio, con l’epopea di Maradona, santo peccatore, che ha unito una città intera, incarnando non solo la voglia del riscatto, ma la rivendicazione del genio, tutto nostro, che nemmeno secoli di dominazione e sofferenza hanno mai potuto spegnere.
Oggi fatichiamo a ritrovare la nostra identità perduta. I luoghi di Napoli, quelli della mia infanzia, l’Italsider di “Mi manda Picone”, il Tribunale di Castel Capuano, hanno ceduto il passo ad altro. Piazza del Plebiscito, da tempo senza più automobili, è il concerto delle star del pop e poco altro. Il San Carlo parla a pochissimi, perché la musica classica e la lirica hanno perduto lo splendore e l’aura di magia che li circondava. Sarebbe tempo di riappropriarsi del nostro tempo e per l’avvocatura è uguale.
Mi chiedono cosa sono e potrei rispondere tante cose: un soccombente, tanto per cominciare, o meglio, l’amico del soccombente. Quattordici anni senza più toccare la chitarra, perfettamente a mio agio nel riconoscimento di una totale assenza di talento, stranito ai suoni che producevo, sconfitto, senza rimpianti, da un mostro più bello e grande di me, da una sirena indomabile, assassina e terribile, proprio come il famoso esercito schierato in battaglia. Un sopravvivente, un mestierante, un combattente, un padre, certo. Sfuggire ai doveri della vita con brio, fare slalom tra le mille e necessarie costrizioni del dover essere è parte integrante di un bisogno di ricreare realtà diverse, di uscire dal seminato, di provare a dare un’impronta personale al passaggio.
Un uomo d’amore e di libertà. Non per via della scelta tra bagno e doccia, quella che marca la differenza tra chi non rinuncia a periodici appuntamenti carnali con la fantasia ed i pensieri e chi invece si pulisce e basta. No, sono un avvocato napoletano che attraverso il diritto cerca di leggere il mondo in cui vive, provando a dire la propria, a immaginare un’altra strada, a portare a delle correzioni di rotta nel suo piccolo mondo. In questo senso mi manca Napoli e mi manca una piena valorizzazione della nostra napoletanità, anche all’interno dell’agire politico che riscontro nell’avvocatura partenopea. Troppa mediocrità, troppo timore nell’assumere posizioni scomode, troppa assenza di personalità.
Ecco, la personalità. Ritorno al giovane Renton, a Sick Boy, per cui l’eroina ha personalità. Una frase senza senso, ma con un significato ancora tutto da decifrare, almeno per me. Ci manca la personalità. Gli avvocati napoletani, un tempo fari di pensiero e di agire fuori dal comune, sono vittime di un appiattimento che ha riportato tutto nel grigiore del medio, del tiepido, dello schifosamente tiepido.
L’avvocatura italiana muore, quella napoletana langue e noi abbiamo bisogno di qualcosa di più che di belle parole. Persino il fare, che a volte va apprezzato, diventa sterile, asfittico, improduttivo, se non è accompagnato da una visione, dalla personalità. Mettersi a capo dei processi di cambiamento di cui gli avvocati napoletani hanno bisogno richiederebbe la capacità di stare al centro dei teatri e dei mercati, dei compromessi e delle contraddizioni, con napoletanissima personalità. Non riusciamo invece ad uscire dai cliché, dagli schemi, triti e ritriti, dei cartelloni e dei convegni, dei nomi in copertina e delle coperte troppo corte.
Siamo materia viva e mortale. C’è bisogno di uno scatto di orgoglio, che rimetta al centro del pensiero politico la nostra napoletanità. Gli avvocati napoletani hanno bisogno di essere guidati al cambiamento, ma anche di esserne motori. Occorre saper toccare le corde giuste, ma perché accada, serve che chi ha in mano le leve più importanti dell’agire, non si limiti a galleggiare, a sopravvivere, a pensare ad una sterile riproposizione del sé. Napoli non è questo, non è ciò che ci è stato insegnato dalla nostra terra, non è quel che le dobbiamo.
Vivo i miei procedimenti disciplinari come il segno tangibile di uno scossone ad un mondo che ha bisogno di tornare a sentirsi vivo. Avverto il disagio di chi vorrebbe che tutto procedesse silenziosamente, lentamente, senza troppi sovvertimenti, ma questo non è il mio modo di intendere il mio essere avvocato e napoletano. Meritiamo di meglio, meritiamo di più e sarebbe un delitto rinunciare ad esprimerlo, non provare a raggiungerlo.
Avv. Salvatore Lucignano