“Puoi starci, è uno che perde”. Lo spaccone non sa vincere, sa solo andarci vicino, ma sente il bisogno irrefrenabile di buttarsi a terra da solo.
Il tema della sconfitta, specialmente legato alla scommessa, aleggia spesso come un elemento sfuggente nella rappresentazione artistica della realtà. Molti grandi capolavori della letteratura e del cinema sono storie di sconfitte, ma pochi riescono a rivaleggiare con quelli che narrano l’epica della vittoria. La voglia di vincere è spesso considerata il naturale accompagnatore dell’agire umano. Nessuno vuole perdere, ma è davvero sempre così?
“Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe profonde alla nuca. Sulle guance aveva le chiazze del cancro della pelle provocato dai riflessi del sole sul mare tropicale e le mani avevano cicatrici profonde, che gli erano venute trattenendo con le lenze i pesci pesanti.”
Nel dialogo tra un disperato pescatore e la sua preda si riassume il significato, a volte ambivalente, sia della sconfitta che della vittoria. Vincere è perdere, può esserlo, se comporta il dovere di sopraffare una nobile creatura come il grande pesce. Il vecchio non ha scelta: lo fa per sopravvivere, è in un certo senso gettato all’interno di un agone che lo obbliga ad uccidere o a morire. Eppure proprio la sconfitta, per quanto appaia paradossale, gli consegna un sogno felice, che lo allontana dalla durezza della miseria. Alla fine di un’epica battaglia, il vecchio, disfatto battuto, annullato, sogna i leoni.
L’epica della sconfitta è ancora più tragica nella vicenda di Bruno Cortona e Roberto Mariani. I protagonisti di un sorpasso che costerà la vita al giovane e impacciato studente, travolto dal destino più crudele, a seguito delle ore che lo avevano liberato di tutte le sue timidezze. Il vincitore, anche qui, è forse introvabile, perché il sopravvissuto, colpevole dello schianto fatale, continua a perdere tutto quello che la sua sfrontatezza gli consente di sfiorare, seppure per brevi attimi.
Voler perdere, dover perdere, essere costretti a perdere, pur dopo aver trovato la strada per vincere. Tre esempi di rapporto con la soccombenza, che è tema assai ricorrente nella professione forense, anch’essa eternamente in bilico tra i due poli a cui tende l’agire del giurista: la vittoria e la sconfitta.
Esistono però numerose sfumature, affreschi sul tema che lasciano sospesi. Narrazioni spesso dimesse, dal ritmo lento, che indulge all’accettazione di una condizione di insuccesso. E’ il caso del soccombente, il tragico Wertheimer disegnato da Thomas Bernhard, che abbandona gli studi di pianoforte, annientato dalle variazioni Goldberg di Glenn Gould. La sconfitta in quel caso è figlia di una scelta ben precisa, esistenziale: Wertheimer vuole vivere tutta la vita da soccombente, perché non regge il paragone e il confronto, non tanto con il virtuosismo sovrumano del suo amico e rivale, quanto con l’essenza stessa della vita: l’accettazione delle sconfitte possibili.
E così, mentre il narratore delle gesta del soccombente lascia volutamente marcire la sua arte, in un modo considerato “assai avvilente” per la ricca e borghese famiglia che lo sostiene, il soccombente rimpiange per tutta la vita ciò che, in definitiva non è stata altro che una sua scelta: voler soccombere, sempre, per sempre, a tutti i costi.
La sconfitta e la vittoria. La sconfitta è la vittoria. Dietro l’apparente paradosso si muove la ricerca di una direzionalità apparentemente innaturale, un tornare indietro, un’inversione, che muta improvvisamente il valore ed il senso delle cose. Scacco matto in due mosse: penitenziagite, in primis, perché occorre “fare penitenza“, come ricorda Salvatore a Guglielmo. Una volta compreso e introitato il tutto, andare verso il down. Trovare una nuova via, in cui la sconfitta e la vittoria trasformano l’una nell’altra, rispondendo al bisogno, che pure spesso si avverte, di poterle assaporare entrambe.
Penitenziagite. Downshifting is the way.