La mancanza di chiarezza e di sinteticità nella redazione dell’atto processuale può costare cara.
Se n’è accorto quel difensore che si è visto dichiarare inammissibile un ricorso dalla Corte di Cassazione per avere esposto, nell’atto, i fatti della causa “proponendo un testo circa 41 pagine, di cui circa 40 contenti la mera trascrizione di parti del proprio atto di appello .. interpolata con l’integrale trascrizione di taluni documenti” e sviluppando ben 191 pagine di motivi di ricorso, facendo così “ascendere il numero delle pagine complessive dell’atto di impugnazione, compreso il sommario e l’indice, a 251” (Cass. civ., Sez. II, Sent. 20-10-2016, n. 21297).
Secondo la Corte il principio di sinteticità degli atti processuali, non rinvenibile in termini generali nel codice di procedura civile (che prescrive la sinteticità solo con riferimento agli atti del giudice, nei riferimenti alla “concisa” esposizione ed alla “succinta” motivazione contenuti negli artr. 132 e 134 c.p.c e art. 118 disp. att. c.p.c.) è stato introdotto nell’ordinamento processuale con l’art. 3, comma 2, del codice del processo amministrativo, alla cui stregua: “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica“.
Tale disposizione esprime un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, in quanto volto a garantire i principi di ragionevole durata del processo e “di leale collaborazione tra le parti processuali e tra queste ed il giudice”. La violazione del principio di sinteticità pregiudica l’intelligibilità delle questioni sottoposte all’esame della Corte, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure, in violazione delle prescrizioni, a pena d’inammissibilità, di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c..
La Corte ricorda che alcuni ordinamenti prevedono una esplicita sanzione per la prolissità e l’oscurità degli atti di parte: ad esempio il codice di procedura civile svizzero “considera non presentati” gli “atti illeggibili, sconvenienti, incomprensibili o prolissi” e consente di “rinviare al mittente” gli “atti scritti dovuti a condotta processuale querulomane o altrimenti abusiva”.
Altri sistemi giuridici prevedono che sia il giudice a stabilire il limite di parole e di pagine utilizzabile per ogni tipologia di atto processuale, come ad esempio la Rule 33 of the Supreme Court of the United States o l’art. 58 del Regolamento di procedura della Corte di giustizia dell’Unione europea.
La Corte auspica il raggiungimento di un obbiettivo di chiarezza e di sinteticità degli atti del processo mediante “tecniche di soft law” che puntino sul “volontario coinvolgimento dell’Avvocatura” (la maiuscola non è senza significato), che induca la classe forense alla “modifica delle proprie abitudini professionali” nel senso di dedurre “con immediatezza e nitore concettuale tutto quello che serve per decidere e solo quello che serve per decidere”.
In tale prospettiva si muove il protocollo Cassazione/CNF del 17.12.2015, che suggerisce i limiti dimensionali degli atti defensionali davanti alla Suprema Corte, pur esplicitando, nella nota n. 2, che il loro superamento non comporta l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso e degli altri atti difensivi, “salvo che ciò non sia espressamente previsto dalla legge”.
Insomma, la pronuncia è un caldo invito agli operatori del diritto a capire che la giustizia è una funzione collettiva, che deve poter essere utilizzata da tutti con moderazione e senza eccessi.
Stante l’enorme domanda di giustizia proveniente dalla società civile, dev’essere ripudiato l’atteggiamento dell’operatore che ritiene di poter abusare del processo quasi a proprio esclusivo uso e consumo, sottoponendo al giudice atti ridondanti e prolissi, basati più sullo sfoggio di erudizione che sulla reale esigenza della parte di ottenere una rapida risposta all’esigenza di tutela del proprio diritto.
Avv. Donatello Genovese
Membro del Direttivo NAD