La Vittima di reato

14 Ottobre, 2016 | Autore : | Tags: ,  ,  

Sono passati 140 anni dalla prima edizione, pubblicata nel 1876, de “L’uomo delinquente” di Cesare Lombroso; eppure tanto la criminologia quanto il processo penale sembrano aver trascurato durante questo lungo periodo lo studio scientifico della vittima, rivolgendo la propria attenzione prevalentemente al reato ed al reo.

In particolare, in Italia il legislatore non ha saputo mantenere quell’ideale equilibrio tra reo e vittima, che ci si sarebbe atteso, dando vita a palesi sbilanciamenti a favore del primo. Nel processo penale la vittima ha sicuramente poco rilievo, quasi fosse una sorta di intrusa mal tollerata: il codice di procedura penale nega alla parte offesa di esprimere la propria opinione nell’applicazione della pena su richiesta delle parti; il nuovo processo minorile si preoccupa principalmente di tutelare la rieducazione del giovane delinquente, fino ad escludere la vittima dal processo, negandole addirittura il diritto di costituirsi parte civile; lo stesso sostantivo vittima, pur se largamente impiegato nelle scienze forensi, è usato raramente nel diritto, preferendosi adoperare in tale ambito espressioni quali l’offeso (art. 70 co. 2 c.p.), la persona offesa (artt. 120 e 130 c.p., art. 90 c.p.p.), la parte lesa (art. 15 r.d.l. 20-07-1934, n.1404, che ha istituito il Tribunale per i Minorenni), ed altre similari.

In un celebre saggio degli anni settanta, Christie ritiene che il diritto delle vittime di intervenire nel processo sia stato nel corso dei secoli espropriato dalle professioni giuridiche. Gli avvocati avrebbero assunto una posizione di monopolio nel rapporto tra i cittadini e la giustizia: le strategie del difensore, unicamente volte a vincere la causa e minimamente preoccupate dei risvolti sociali, avrebbero finito col prevalere sugli obiettivi originari della controversia. Secondo il Christie, il tribunale dovrebbe essere un luogo di contrattazione delle norme che regolano la società piuttosto che un semplice contesto in cui si punisce il reo, tenendo fuori coloro che hanno subito le sofferenze inferte attraverso il reato.

In realtà, senza alcuna necessità di demonizzare la professione dell’avvocato, è possibile oggi affermare che le motivazioni sottese al disinteresse per la vittimologia, pur presentando una casistica talmente ampia da impedire una vera e propria classificazione esaustiva, possono essere così sintetizzate:

  • l’uomo medio tende ad interessarsi a quei fenomeni sociali ritenuti più allarmanti e pericolosi, preferendo quindi lo studio del criminale a quello della vittima, percepita come inoffensiva, passiva e totalmente in balia degli eventi;
  • l’opinione pubblica ritiene che lo studio della vittima potrebbe costituire un’indebita aggressione ai diritti della sua persona, soprattutto quello alla riservatezza;
  • esiste un confine, labile e sfumato, tra i due protagonisti nella commissione del reato, potendo la vittima essere anche un criminale (per esempio un minore maltrattato che compie un omicidio in famiglia), oppure il criminale una vittima (si pensi alle ingiustizie processuali). Si osservi che uno stesso soggetto potrebbe anche essere contemporaneamente l’uno e l’altra (omicidio-suicidio, omicidio del consenziente), o talvolta potrebbe essere la sorte a decidere chi sarà la vittima (rissa, duello).

A partire dagli anni ottanta nei paesi anglosassoni, e negli ultimi anni anche in Italia, pare essersi avviata la tendenza opposta che vede le vittime tornare al centro del dibattito teorico e politico sulla giustizia penale. Questa nuova tendenza sembra essersi sviluppata in concomitanza a tre distinti fenomeni:

  • la crescita della criminalità, che ha evidenziato come criminali e vittime condividano talvolta lo stesso retroterra culturale, le stesse condizioni di vita e simili appartenenza di classe, contrariamente a quanto affermato dalla vecchia criminologia marxista secondo cui vittime e offensori sono due entità opposte, inconciliabili ed appartenenti a classi sociali in conflitto tra loro;
  • la diffusione di modelli alternativi di punizione o di esecuzione della pena come la mediazione penale (sulla falsariga della “Restorative Justice”, la giustizia riparativa anglosassone), forma di giustizia alternativa che propone di sottrarre al circuito penale fatti delittuosi sanabili tramite la riconciliazione tra reo e vittima, rimediando al danno provocato dal crimine attraverso l’assunzione di responsabilità da parte del reo, che ricostruisce così il legame sociale interrotto con le vittime e con la comunità di appartenenza;
  • il proliferare di movimenti in favore delle vittime che, contribuendo a far emergere il tema delle molestie e delle violenze sessuali subite da donne e bambini, ha evidenziato come le forze dell’ordine abbiano spesso sottovalutato questi reati.

Se si osserva l’attuale situazione italiana, la spiegazione elaborata sembra essere in gran parte confermata. La sensibilità verso la vittima, figura comprimaria del fatto-reato, si è andata risvegliando, nel nostro paese, in concomitanza con la ripresa degli studi empirici sulla criminalità. Questo interesse per lo studio sociologico delle vittime è poi culminato nella prima indagine nazionale di vittimizzazione condotta dall’ISTAT. Negli ultimi anni, inoltre, le associazioni dei parenti delle vittime di violenze sessuali, di maltrattamenti familiari, della mafia, del terrorismo e di crimini ed eventi catastrofici vari hanno assunto nell’opinione pubblica e nella legislazione un peso e una visibilità maggiori. Anche sociologi e criminologi si sono attivati “nell’organizzazione di comitati, associazioni, realtà aggregative assolutamente informali, che stanno attorno alle vittime e che rappresentano un tentativo spontaneo di uscire dal dramma attraverso l’intervento di altre persone” (Scatolero, 1995).

L’emergere delle vittime nel dibattito politico-penale e criminologico non è comunque esente da ambiguità: il richiamo alle donne e ai bambini come vittime di violenze e molestie spesso non è diretto a potenziare interventi a favore di questi soggetti, ma a legittimare il ricorso a politiche repressive che inaspriscono la severità delle sanzioni e i poteri di investigazioni delle forze dell’ordine. Esemplari sono al riguardo la legge n. 66 del 1996 sulla violenza sessuale e quella n. 268 del 1998 sulla pedofilia. Sono leggi che, incrementando gli strumenti repressivi e sanzionatori ed al contempo trascurando il potenziamento dei servizi per le donne ed i bambini vittime di violenza, affrontano il problema solo dal punto di vista penale e delle strategie di controllo sociale. In questo caso le vittime assumono un valore simbolico, servono a creare consenso intorno a campagne di panico morale che mirano a utilizzare la politica penale per scopi politici e sensazionalistici.

Chi è, dunque, la “vittima”?

L’etimo di vittima può farsi risalire ai verbi latini “vincire” (=legare, avvincere) o “vincere” (=sconfiggere, disarmare); la vittima, dunque, è il vinto, lo sconfitto dal reato, il soggetto passivo su cui agisce l’azione criminosa perpetrata dal soggetto attivo (criminale, aggressore).

Una definizione molto suggestiva della vittima è proposta da Burgess, Douglas e Ressler nel “Crime Classification Manual” (1992): “soggetto che diviene l’obbiettivo dell’attacco dell’aggressore, incrociandone la strada nel momento in cui l’offender valuta favorevoli le circostanze per commettere un crimine (assenza di testimoni, periodo della giornata, vulnerabilità della vittima ecc.). Le condizioni mentali dell’offender possono influenzare la sua percezione del rischio insito nell’atto. Alcol, droghe, situazioni di stress, impulsività, tra gli altri fattori, possono influenzare l’offender nell’assumere rischi maggiori nella commissione del crimine”.

Decisamente meno appassionato, Galimberti (1999) definisce semplicemente la vittima come un “individuo o gruppo che, senza aver violato regole convenute, viene sottoposto ad angherie, maltrattamenti e sofferenze di ogni genere…”.

Per quanto sopra, restringendo il campo a contesti prettamente criminali, è possibile affermare genericamente che la VITTIMA è quel soggetto che in maniera diretta o indiretta (ad esempio anche attraverso minacce) ha subito un danno fisico, psicologico, economico o di altro tipo durante la commissione di un crimine.

La criminologia tradizionale distingue la vittima passiva da quella attiva. La vittima passiva è quella prodotta esclusivamente dell’attività del reo.  Invece, la vittima attiva è quella vittima che ha contribuito alla commissione del reato; il contributo della vittima può essere solo morale o psicologico,  diversamente non si avrebbe vittimizzazione ma correità.

Attualmente, partendo da  questa classica distinzione, è possibile proporre una classificazione più moderna ed esaustiva.

Innanzitutto è necessario operare una preliminare differenziazione delle vittime in fortuite, fungibili, infungibili ed atipiche.

  • Le vittime fortuite sono quelle danneggiate da calamità naturali (alluvioni, uragani, terremoti) o eventi fortuiti (crollo di un edificio, esplosione di una bombola di gas) che, non presupponendo l’esistenza di un autore di reato, non presentano ulteriori tipologie.
  • Le vittime fungibili, riconducibili alle vittime passive in quanto generate unicamente dell’attività del reo, sono quelle vittime che non hanno alcun tipo di relazione con il reo. In esse non è ravvisabile alcun particolare comportamento che abbia indotto il reo a vittimizzarli. Questa categoria, cui appartiene la stragrande maggioranza delle vittime, si articola nelle tipologie sotto elencate.
  • Vittime accidentali: vittime che hanno incrociato per mera combinazione la strada percorsa dal delinquente, questi, pertanto, non le ha scelte personalmente. Esse devono considerarsi un prodotto casuale della condotta tenuta dal reo (es.: il passante sfortunatamente attinto dai proiettili esplosi in un conflitto a fuoco tra bande rivali, il cittadino che si imbatte in una rapina in banca mentre sta effettuando un’operazione allo sportello).
  • Vittime preferenziali: vittime selezionate dal delinquente per il ruolo ricoperto, per la posizione economica o per altre circostanze che oggettivamente favoriscono la commissione di reati (es.: il sequestro di un ricco industriale a scopo di estrorsione).
  • Vittime simboliche: vittime che diventano tali perché rappresentative di un gruppo o di un’ideologia (si pensi al sequestro Moro).
  • Le vittime infungibili, riconducibili alle vittime attive in quanto contribuenti alla commissione del reato, sono quelle che hanno instaurato, più o meno consapevolmente, una relazione con il reo. Esse intervengono in vari modi nell’azione criminale e si articolano in numerose sottocategorie.
  • Vittime alternative: si pongono volontariamente in una situazione dove possono assumere le vesti tanto di vittime quanto di agenti (l’esempio tipico è rappresentato dalla rissa).
  • Vittime consenzienti: vittime che acconsentono alla perpetrazione di un crimine ai loro danni. Tipici esempi sono le lesioni provocate durante un rapporto sadomasochista e l’omicidio del consenziente ex art. 579 c.p., rilevante in caso di eutanasia o di omicidio/suicidio.
  • Vittime provocatrici: vittime che partecipano alla dinamica del delitto suscitando la rabbia dell’aggressore, che diventa tale perché provocato. A tal proposito si osservi che il codice penale, all’art. 62 co. 2, considera l’aver agito in stato d’ira, determinato da fatto ingiusto altrui, una circostanza attenuante comune.
  • Vittime attaccanti: vittime che reagiscono alla violenza subita attaccando a loro volta l’aggressore, suscitando in questi una conseguente risposta offensiva (la legittima difesa ex art. 52 c.p.).
  • Vittime per lavoro svolto: vittime che svolgono un’attività lavorativa particolarmente pericolosa, strettamente legata alla commissione di reati e in contrasto con la criminalità (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza).
  • Le vittime atipiche, sono quelle vittime che, presentando particolari caratteristiche anomale, non possono rientrare in nessuna delle tipologie finora esaminate. Si tratta di una categoria individuata unicamente in base ad un criterio di esclusione dalle altre.
  • Vittime imprudenti: vittime poco avvedute che solitamente arrecano danno a se stesse (es.: l’autista che, non avendo controllato i freni della propria vettura, muore in un incidente stradale).
  • Vittime trasversali: quando la vittima viene vittimizzata per il suo rapporto, d’amore, amicizia o parentela, col bersaglio reale dell’attività criminale (es.: le vendette mafiose contro i parenti dei pentiti).
  • Vittime volontarie: nei rari casi di suicidio o di lesioni autoinflitte.

Comunque, qualunque sia stato il ruolo svolto dalla vittima nella genesi del reato, non bisogna mai dimenticare che il reo è sempre colpevole di aver infranto la legge, provocato sofferenza e leso gli altrui diritti.

Avv. Ciro Sasso

CERCA