In Inghilterra infuria il dibattito sull’applicazione dell’art. 50 del Trattato di Lisbona, che prevede l’intervento del Parlamento inglese per ratificare l’esito del referendum che recentemente ha portato il popolo del Regno Unito a pronunciarsi per la vittoria del “leave”, decretando l’uscita del paese dall’Unione Europea. La reazione di molti organi di stampa alla procedura prevista dal Trattato ha sollevato, in Inghilterra ed in Europa, nuovi polveroni sulla natura e lo stato delle democrazie occidentali. In particolare, la volontà di molti di superare ogni forma per l’esercizio delle proprie ragioni, porta molti analisti politici a chiedersi se una democrazia che scavalca le procedure possa essere ritenuta tale o meno.
I problemi legati al rapporto tra società di massa e democrazia, in relazione all’emergere del populismo, cominciano a diventare un elemento onnipresente nelle riflessioni proposte alla cittadinanza dalle istituzioni. Con la caduta delle ideologie che hanno segnato la vita politica europea all’indomani della seconda guerra mondiale e fino alla fine del regime dei blocchi contrapposti, la capacità di legare le masse a un disegno politico basato su fondamenta ideali ed ideologiche, ha spalancato le porte all’espressione, non controllabile e non controllata, di un diverso modo di concepire il rapporto con lo Stato: il populismo.
L’assenza di progetti politici capaci di legare ed unire grandi masse, la scomparsa di riferimenti ideali e culturali laici, sostituiti dall’immagine del politico “usa e getta”, ha generato disaffezione crescente dei cittadini verso l’impegno politico, contribuendo a relegare il rapporto tra individuo e istituzioni in una posizione sempre più defilata all’interno della gerarchia degli interessi di ciascuno. L’incapacità della politica di ricucire questo rapporto con i popoli, la corruzione e l’autoreferenzialità dei sistemi di governo, hanno acuito il problema, che ormai porta al paradosso che alimenta maggiormente il populismo: tutto ciò che dovrebbe essere al servizio dell’individuo rappresentato, sul piano istituzionale, viene ritenuto al servizio dei governanti e dei rappresentanti. Tutto ciò che dell’individuo dovrebbe essere amico, ovvero lo Stato e l’istituzione, viene da lui percepito come un nemico. L’inimicizia tra individuo e Stato, tra individuo ed istituzioni, finisce spesso con il generare senso di estraneità, alienazione, incapacità di riconoscersi nei fenomeni di aggregazione collettiva, alimentando un odio viscerale del cittadino verso tutto ciò che riguarda il pubblico, percepito come distante e ostile.
Dove finiscono le colpe dei cittadini estranei ai sistemi e dove cominciano quelle dei governanti? Difficile dirlo. Ciò che appare sempre più evidente è che governi e popoli si rimpallano la responsabilità per l’andamento insoddisfacente della vita pubblica. Il disinteresse e la distanza della gente acuisce i fenomeni deteriori della vita politica: voto di scambio, scadimento qualitativo delle proposte, insofferenza verso la complessità insita nella contemporaneità. Allo stesso tempo, l’incapacità delle classi dominanti di avvicinarsi ai propri rappresentati, crea un effetto domino, aumenta a dismisura il sentimento di odio degli strati emarginati della popolazione verso le istituzioni, rafforza il teorema secondo il quale tutti coloro che prosperano, in una società in cui sono in molti a soffrire, ottengano il proprio benessere per mezzo di vessazioni e ruberie ai danni di chi lamenta condizioni di vita insoddisfacenti.
Tutti questi fenomeni si intersecano e costituiscono la base per una corsa al semplicismo che, finendo con il non riconoscere la natura spesso contraddittoria e complessa dei problemi, ma invocando a gran voce soluzioni apparentemente “elementari”, finisce con il distanziarsi ancora di più dai processi utili all’avanzamento della società.
La dicotomia tra complessità e semplicità, l’esaltazione della seconda a discapito della prima, porta al trionfo della banalizzazione. Il populismo si nutre principalmente di questo scarto tra la visione e la risoluzione dei problemi, da un lato, e la loro rappresentazione, dall’altro. Compito fondamentale delle istituzioni e dei governi è ricucire il rapporto di fiducia con la cittadinanza, dimostrandosi vicini alle esigenze di giustizia sociale delle masse, scoraggiate da istituzioni lontane e sorde alle loro istanze.
Allo stesso tempo, i corpi intermedi, le associazioni politiche, gli intellettuali, devono spingere le masse ad una presa di coscienza che riguarda proprio la contraddittorietà e la complessità della contemporaneità. Solo se i cittadini rifuggiranno da pseudo soluzioni, si avvicineranno ai problemi con atteggiamento consapevole, potranno generare soluzioni compatibili con la praticabilità. La reazione opposta: la rabbia, il distacco, la fuga verso posizioni ed atteggiamenti che privilegiano l’immediato, il piccolo interesse, lo scambio basato sul mercato del voto, o peggio, il rifiuto della politica come strumento risolutivo dei problemi, non fanno che aiutare l’arroccamento delle elites su posizioni intransigenti verso l’apertura alle istanze di riscatto dei più deboli.
Non c’è alcun dubbio che la democrazia della distanza, intesa come distacco tra governanti e governati, non possa dirsi democrazia compiuta, o perlomeno efficace. Il populismo è solo uno degli sbocchi a questo processo di disgregazione, ma non è certamente l’unico approdo possibile per le nostre società. Tocca alla politica impedire che esso diventi l’elemento trainante del sentire dei popoli. Perché ciò avvenga però, è indispensabile che la politica accetti di autoriformarsi, diventando buona politica, così come è fondamentale che le istituzioni rinuncino al mito della propria effettiva rappresentanza, laddove emerga con assoluta evidenza, la propria totale carenza di rappresentatività.