Di recente, l’istituto Eurostat ha rilevato che oltre due terzi di coloro che hanno tra i 18 e i 34 anni vive a casa con i genitori. Si tratta di una una percentuale (67,3%) che nel 2015 ha visto un aumento di quasi due punti, ponendo l’Italia al secondo posto in classifica per quanto riguarda questo dato all’interno dell’Unione Europea. La media dell’Unione è inoltre molto più bassa (47,9%) e mostra un paese in cui i giovani fanno davvero fatica a distaccarsi dal nucleo familiare originario. In Italia la percentuale di coloro che hanno tra i 25 e i 34 anni e vivono ancora in famiglia ha raggiunto il 50,6% (era al 44% nel 2011) e marca un dato impressionante rispetto alla media europea, che è di circa 22 punti inferiore. L’unico paese che vede minore “autonomia” giovanile rispetto al nostro paese è la Grecia (con il 53,4%). Un dato certamente non esaltante, se solo si pensa alle condizioni economiche del paese ellenico.
In molti si affannano a cercare spiegazioni sociologiche, economiche e politiche dietro questa evoluzione, o forse involuzione, a seconda dei punti di vista, vissuta dalle giovani generazioni italiane e ciascuno ha le proprie tesi sul tema. Negli anni scorsi non sono mancate critiche all’atteggiamento dei nostri cittadini più giovani: qualcuno li ha definiti “choosy”, ovvero schizzinosi, sottolineandone la scarsa propensione al sacrificio e non mancano costanti riferimenti al mito per cui il maschio italiano sarebbe “mammone”, ovvero legato in modo morboso al ruolo della propria madre, capace di condizionarne le scelte e di entrare nella sua vita ben oltre il dovuto. A queste etichette se ne sono aggiunte progressivamente altre, legate alla mancanza di volontà di formarsi una famiglia, al rifiuto di donarsi ai figli. E’ così comparso un nuovo vocabolo, che definisce queste generazioni di eterni adolescenti: “sneet” ovvero (Not engaged in Education, Employment or Training). Una sorta di rievocazione della profezia incarnata da una canzone del 1985 “Io sto bene”, cantata dai CCCP. Sposarsi o fidanzarsi, creare una famiglia, diventano così oggetto di analisi, spesso anche satiriche, che non lasciano scampo ai “temerari che ci provano”.
I giovani vengono così definiti in modo sprezzante “gggiovani”, a sottolinearne la scarsa cultura, l’atteggiamento distaccato dai problemi, incapace di trovare soluzioni alla scarsità di risorse, e dunque eternamente legati all’utero materno. Una rappresentazione che tocca anche l’avvocatura, i cui esponenti più giovani vivono certo anni difficili, esponendoli alla stessa sorte di coloro che un tempo erano visti come meno fortunati di un libero professionista.
Dove sta la verità? E’ vero che l’atteggiamento dei giovani moderni li rende incapace di accettare le sfide che un tempo venivano affrontate con maggiore intraprendenza? Certo la disoccupazione giovanile, l’incertezza sul futuro, l’assenza di lavori capaci di garantire un progetto di vita stabile, influiscono moltissimo su questo stato di cose. La risposta al problema dunque non può essere probabilmente ottenuta analizzando unicamente le scelte individuali dei più giovani, ma anche offrendo risposte adeguate a bisogni che troppo spesso nessun giovane, da solo, riesce a soddisfare.
In fondo per crescere, amare, formare una famiglia, occorre sicuramente una propensione individuale, ma di certo esistono anche responsabilità maggiormente avvertite rispetto al passato, che spingono molti giovani a rinunciare o a ritardare a malincuore questi percorsi di vita.