Manca poco più di un mese alla fine dell’anno e si riaccende il dibattito sulla nuova norma varata dal primo governo Conte, sulla prescrizione, che per i reati targati 2020 verrà congelata nel giudizio di appello.
Da quel che si legge pare che una grandissima parte degli addetti ai lavori – avvocati, ma anche magistrati e docenti – abbia fermamente preso posizione contro questa norma, che, salvo alcune sparute eccezioni, viene considerata come un marchio di infamia sulla nostra civiltà giuridica, un segno osceno dell’imbarbarimento dello stato di diritto.
Restano pochi recalcitranti, cui forse bisogna spiegare ancora (e ancora … e ancora) perché la prescrizione sia uno strumento indispensabile per garantire il cittadino dalla tirannide statuale e perché la sua sospensione in eterno ovvero la sua abrogazione non serva ad accelerare la celebrazione dei processi.
Iniziamo dal profilo più squisitamente tecnico – organizzativo, quello legata alla speditezza dei processi e poniamo, quale solita premessa, la situazione ormai cronica di piante organiche carenti, sia nei ruoli della magistratura che in quelli del personale amministrativo, di strutture inadeguate, fatiscenti ed in alcuni casi mancanti (si pensi alla situazione barese, per citarne una).
In queste condizioni è evidente che non sia possibile celebrare che i processi urgenti, ossia quelli con imputati detenuti (in ragione della esistenza di termini di custodia cautelare che, prima o poi, scadono) e quelli prossimi alla prescrizione.
È altrettanto evidente che, congelando la prescrizione, si celebreranno “proficuamente” (ossia con decisione ne merito, che i seguaci delle teorie antiprescrizione immaginano già di condanna) tutti i processi.
Ma quando? Forse mai.
Se al magistrato (nel nostro caso alla Corte d’Appello) sarà concessa la possibilità di fissare le udienze senza limiti di tempo, si può essere certi che i tempi già biblici riscontrabili oggi (per processi con imputati liberi anche sette anni tra la sentenza di primo grado e la prima udienza in Appello) si dilateranno ancora, traghettando il processo verso una condizione di pendenza infinita. Che all’imputato, a certe condizioni ed a patto di poter sopportare un carico penale eternamente pendente, può anche andar bene, ma che alla parte civile (che molti dicono di voler tutelare) nega ogni possibilità di esecuzione dell’auspicato risarcimento dei danni patiti, differendola ad un tempo non preventivabile.
Passando ad un piano di analisi “filosofico”, la prescrizione – e la sua verificazione in tempi prevedibili – è uno dei limiti – per vero, pochi – al potere dello stato – recte, della magistratura o, ancora più correttamente, delle procure – di perseguire gli autori di fatti costituenti reato. In pratica, se il processo è funzionale a ristabilire l’integrità dell’ordine sociale vulnerato dalla commissione di un fatto reato, lo stesso effetto deve essere riconosciuto al decorso del tempo, che impedisce ai cittadini di essere esposti alle pretese punitive dello stato in eterno.
Per altro, in un ordinamento in cui è prevista l’obbligatorietà dell’azione penale, il potere / dovere della magistratura inquirente di promuovere l’azione penale e di perseguire i ritenuti autori di fatti criminosi non può non essere illimitato. E se da un lato il limite è costituto dalla valutazione – almeno in prima istanza – autonoma e soggettiva del PM circa la ricorrenza o meno dei requisiti per l’esercizio dell’azione penale (a mente dell’art. 405 cpp, “1. Il pubblico ministero, quando non deve richiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale, formulando l’imputazione, nei casi previsti nei titoli II, III, IV, e V del libro VI ovvero con richiesta di rinvio a giudizio”), dall’altro il limite, da verificare in ogni momento della complessiva vicenda costituente il procedimento penale, è quello squisitamente oggettivo costituito dalla prescrizione.
Solo se la pretesa punitiva dello stato è esercitata nello spazio che questi due elementi delimitano, possiamo assicurare sia le esigenze di prevenzione, speciale e generale, che quelle repressive, che insieme informano il nostro ordinamento.
Al di fuori di questo spazio non c’è più lo stato di diritto ma un potere indiscriminato ed incontrollato, autoreferenziale ed autotelico.
Per questo, bisogna sperare che tutte le componenti della “macchina della giustizia” mettano in campo tutte le forze e le energie di cui dispongono per impedire l’entrata in vigore della l. 3/19.
NAD c’è.
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