La costante perdita di reddito degli avvocati italiani, ben fotografata dal rapporto CENSIS 2018, racconta una crisi sistemica più profonda di quanto i ciechi e gli ottimisti di maniera vogliano o possano vedere. Il modello produttivo che ha consentito all’avvocatura di massa di saturare il mercato delle prestazioni legali italiane si è giovato di una politica favorevole all’inefficienza, facendo delle proprie inadeguatezze il motore della crescita dimensionale. Volendo esemplificare, potremmo quasi dire che tra l’aumento del numero di avvocati attivi in Italia e l’efficienza dell’avvocatura italiana si è creata una proporzionalità inversa, per cui più gli avvocati prosperavano in un comparto giustizia inefficiente per i cittadini, più aumentavano di numero.
Ovviamente questa analisi farà storcere il naso ai puristi dell’avvocatura “brava gente”, quella corrente di pensiero che domina la politica forense italiana e la visione che gli avvocati hanno di loro stessi, portandoli a vedersi come una sorta di congrega di benefattori laici, incompresi dal mondo ingiusto e crudele. Nelle puntate precedenti rispetto a questa ennesima riflessione che analizza l’estinzione dell’avvocato di massa in atto nel nostro paese, mi ero soffermato più volte sull’ineluttabilità del processo. I dati su cui si basano le mie opinioni, che in molti casi hanno solo confermato analisi già pubblicate, raccontano esattamente questo. I tassi di incremento del numero di legali attivi in Italia ormai si avviano a diventare negativi, mentre i controllori del fenomeno forense massificato continuano ad immettere fattori che possano portare all’implosione di quei segmenti di avvocatura che si vuole scompaiano dallo scenario: gli avvocati meridionali, le donne, i giovani.
L’aumento dei vincoli legali a cui la professione forense è stata sottoposta negli ultimi 20 anni non è stato mosso da esigenze o aspirazioni di giustizia. Occorreva zavorrare un surplus di operatori, scoraggiandone la prosecuzione dell’attività. Chi pensa che l’obiettivo non si stia raggiungendo sbaglia, perché le tempistiche di risposta a politiche ostili all’esercizio della libera professione non possono essere analizzate nel breve periodo. La legge 247/2012 ha fatto molto per disegnare un sistema forense a misura di malfattore, di istituzionalizzato, di vecchio e di maschio. La “compliance” degli ideatori della nostra legge professionale verso i killer dell’avvocatura di massa è stata totale. Guido Alpa e i suoi figliocci sono stati esecutori fin troppo zelanti e la persistenza di un sistema rappresentativo interno alla nostra professione corrotto e restio ad una presa di coscienza è il miglior feedback per chi continua a perseguire il disegno di sfoltimento dell’albo su base censuaria e razzista.
Nel corso degli ultimi anni ho sempre spiegato, con scarsissimo successo ed ancor minore consenso raccolto, che l’avvocatura istituzionalizzata era lo strumento, che agiva su un piano coordinato e non solo subordinato rispetto ai mandanti esterni, con il preciso obiettivo di “diminuire” la figura dell’avvocato libero. Allo stesso tempo i fattori esterni che influenzano il quadro sono stati convergenti con le misure normative e gli indirizzi politici che ci riguardano. La bulimia e l’irrazionalità del sistema giudiziario italiano, la propria inefficacia nel tutelare diritti ed interessi dei cittadini deboli ed onesti, l’assoluta inservibilità del processo pubblico statale come strumento volto ad ottenere giustizia, erano e sono elementi che hanno fatto da cassa di risonanza alla tensione che sta portando l’avvocatura di massa italiana verso la sua supernova. Ancora oggi chi governa l’andamento della nostra massa forense non spinge verso una riconversione meritocratica, ma continua a perorare il libero accesso all’albo, lo svolgimento della professione anche per chi percepisce trattamenti pensionistici legati all’anzianità, i favoritismi verso chi ha maggiori familiarità con l’offerta di lavoro legata a scambi corruttivi, clientelari, amicali, non di rado protetti e coperti dalle istituzioni forensi italiane, sempre pronte a chiudere un occhio verso il malaffare interno alla professione, purché legato ad ambienti contigui alle istituzioni.
In questo quadro comprendere che l’assenza di un governo di categoria basato su valori democratici e progressivi, ostile alla riproposizione dei padrini della politica forense italiana, è stato un elemento devastante per le nostre possibilità di uscita dalla bolla, sarebbe il primo passo verso una disperata, seppur forse tardiva, presa di coscienza della gravità della situazione. Servirebbe una terapia d’urto, un’avvocatura politica che finalmente voglia farsi parte diligente in un processo di inversione ad “U” rispetto a ciò che le nostre istituzioni forensi hanno fatto nelle ultime decadi, ma i segnali che la categoria manda sono opposti a questa direzione. Il rafforzamento della Cosa Nostra Forense pare essere impermeabile all’analisi dei disastri, della povertà e della corruzione che essa ha generato all’interno dell’avvocatura italiana. I segmenti dominati dalle logiche della Cosa Nostra Forense non hanno trovato in questi ultimi anni un progetto appetibile per la vasta parte di esclusi dai meccanismi dell’istituzionalizzazione. Molto spesso sono stati proprio gli avvocati sfruttati e ricattati dal sistema a costituire il migliore bacino elettorale per chi ha potuto marginalizzare ogni spinta oppositiva. Si è così compiuto un altro capolavoro politico dell’istituzionalizzazione: usare la base, vessata e tradita, come alleato per l’annullamento dei movimenti volti al capovolgimento del sistema. La Spigolatrice di Sapri in salsa forense ha funzionato alla perfezione ed io posso testimoniarlo in prima persona.
E’ ormai opinione radicata all’interno di alcune avanguardie politiche presenti nell’avvocatura italiana che la Cosa Nostra Forense giocherà ancora un ruolo dominante per altri otto anni. Il supporto normativo che la Cosa Nostra ha ideato per consentire ai padrini della cupola di continuare a governare le masse informi ed inerti è la possibilità di ricandidatura all’interno dei Consigli dell’Ordine. Il sistema vuole continuare ad operare per altri due mandati, per complessivi otto anni, in modo da dare ai suoi uomini la possibilità di continuare a lucrare per mezzo della gestione della Cosa Nostra. La massa è sostanzialmente d’accordo. I meccanismi clientelari e corruttivi del sistema ordinistico continuano a funzionare alla perfezione, garantendo ritorni in termini di consenso che non lasciano spazio all’ottimismo. Attualmente manca in Italia una proposta politica alternativa, capace di unire culture diverse, che vogliano e sappiano stare insieme, per offrire ai delusi e agli astenuti al voto un progetto di distruzione delle attuali istituzioni forensi. L’avvocatura italiana è troppo corrotta per poter aspirare ad una riforma indolore. Probabilmente solo un elemento di rottura, che faccia crollare la Cupola istituzionalizzata, può portare al cambiamento. In quest’ottica diventa fondamentale impugnare la norma della Legge Falanga che si vorrebbe usare per prolungare la permanenza nelle istituzioni degli uomini del sistema. La speranza è che la Corte di Cassazione possa contribuire alla sconfitta della cupola forense, limitando a tre o quattro anni la permanenza nelle istituzioni dei padrini che stanno governando (si fa per dire) la nostra estinzione.
Avv. Salvatore Lucignano