Prendo spunto da uno degli articoli di stampa che oggi affrontava le conclusioni rese dal nuovo rapporto SVIMEZ (pubblicato da La Repubblica e scritto da Barbara Ardù), e le incrocio con i dati sulla crisi dei redditi che flagella ormai in modo sempre più pressante le fasce più deboli della nostra categoria professionale. E’ da qualche tempo che riflettevo sulla cosiddetta “gig economy”. Incrociando alcune considerazioni già pubblicate, in tema di valore e valori, il fenomeno dell’impoverimento del lavoro e dei poveri inoccupati non può non essere oggetto di una specifica attenzione. Allo stesso modo annoto alcuni proponimenti che riguardano un certo modo di prestare lavoro, sia esso relativo al mestiere dell’avvocato o meno, per concludere su un elemento che accomuna il depauperamento del lavoro: la subalternità culturale e politica di chi non riesce ad opporre allo storytelling dominante una diversa visione del rapporto tra prestatore d’opera e cliente, ovvero tra datore di lavoro e lavoratore. Uno stato di minorità che si traduce nell’incapacità per gli sfruttati e i sottopagati di trovare validi rappresentanti politici che possano tutelare le proprie istanze e i propri bisogni.
La povertà da occupazione peraltro è un tema che NAD ha già toccato quando si è proposta di mettere in discussione il paradigma della mutualità obbligatoria. Quando abbiamo presentato le nostre osservazioni nei due convegni tenuti in Parlamento, nel gennaio del 2017 e del 2018, abbiamo detto con chiarezza che il problema dell’accantonamento di una parte del reddito di vita, in favore del risparmio previdenziale, è di palmare drammaticità. Nei modelli di welfare universale che hanno generato quella cosa conosciuta da noi tutti come “pensione”, una delle condizioni troppo spesso taciute da chi ci propina una previdenza forense “amica” e “vicina” alle fasce di avvocatura più debole era che il reddito prodotto dall’avvocato o dal lavoratore che aderiva a quel patto previdenziale obbligatorio, fosse comunque sufficiente a garantirgli un’esistenza attuale libera e dignitosa. Per essere più chiari: il concetto stesso di “risparmio previdenziale”, fonda su un elemento irrinunciabile alla sostenibilità sociale del sistema, che consiste nel fatto che il risparmio sia un “surplus” di reddito rispetto a ciò che rimane, una volta soddisfatti i bisogni primari ed attuali del lavoratore. Se viene meno questa condizione, o forse, per meglio dire “precondizione”, l’idea di stritolare il lavoratore o l’avvocato in una forma di prelievo vampiresco e forzoso, che abbia come miraggio e prospettiva il reddito futuro, prescindendo totalmente da quello attuale, ecco che il disegno perde ogni credibilità, mostrando il fianco e tradendo la sua vera ed inconsistente struttura.
I concetti che dunque presento in questo articolo sono integrati nella politica NAD, che è un sistema politico molto più complesso e profondo di quello che molti osservatori della nostra associazione possano immaginare. Dietro la rivendicazione delle libertà individuali dell’avvocato infatti, non c’è una visione gretta, individualista, miope ed antisociale. Al contrario, noi crediamo che una società fatta di una moltitudine di individui deboli sia più debole e riteniamo che non si possa parlare di coesione e sviluppo senza interrogarsi sulle condizioni economiche di una vasta fascia di popolazione. Laddove i modelli socioeconomici dominanti generano invece povertà diffusa ed emarginazione sociale anche quando e dove si “fatica”, ecco che viene meno la funzione del lavoro come elemento di inclusione democratica e civica e si rompe il patto tra cittadino e Stato, tra individuo e comunità, dando la stura alle peggiori pulsioni di masse di esclusi, che rivendicano giustamente il proprio diritto alla vita ed alla felicità.
NAD è un’associazione forense che non ha mai avuto paura di toccare questi temi, pur consapevole della loro complessità, della distanza dagli interessi dell’elettorato forense che in genere esprime le sue rappresentanze, ma non possiamo pensare di educarci e crescere, se rinunciamo a migliorarci.
Torniamo dunque al cuore di questo articolo, ovvero al concetto di “lavoro povero”.
“Lavoro povero è occupazione remunerata con un salario talmente modesto che non permette di superare la soglia di povertà”. Questa definizione dell’Enciclopedia Treccani non fa che raccogliere una triste, rabbiosa verità, che in Italia in molti conosciamo e denunciamo da tempo, nell’indifferenza generalizzata di una politica colpevole e miope. La verità è che oggi in Italia si muore di fame da lavoro. Certo, la locuzione, il concetto, potrebbe apparire provocatorio, ma la realtà è ben peggiore della fantasia. Dietro le amichevoli definizioni, tese ad edulcorare la portata drammatica del fenomeno, quali “economia dei lavoretti”, “gig economy” ed altro, si trova un enorme mondo, sempre più emarginato e dolente, che le scelte italiane ed europee non hanno minimamente aiutato, contribuendo al contrario ad ingigantire sempre più una piaga che sta assumendo dimensioni gigantesche.
La riflessione si impone proprio oggi, 1 agosto 2018, in occasione della diffusione degli ultimi dati del rapporto annuale SVIMEZ, i dati ufficiali non fanno che confermare una percezione largamente diffusa. Il sud del paese è il regno ormai incontrastato dei cosiddetti working poor, occupati ma poveri, perché nelle regioni meridionali le retribuzioni che vengono “riconosciute” (si fa per dire), dai datori di lavoro, sono da fame, non discostandosi di molto dagli oboli che i negrieri di un tempo generosamente offrivano ai propri schiavi.
La precarietà, il part time, forme di impegno sempre più frammentarie, insicure, scarsamente retribuite, generano un esercito di occupati poveri, che nonostante passino le proprie giornate nello svolgimento di mansioni, spesso anche umilianti, poco gratificanti e per niente riconosciute sul piano sociale, vedono come ulteriore fattore di ingiustizia un livello reddituale che non consente al lavoratore alcun tipo di dignitosa sussistenza, non solo per la propria famiglia, che appare sempre più un miraggio irraggiungibile per molti, ma anche per se stesso.
Il parallelo con la condizione di povertà di vasta parte dell’avvocatura italiana, che pure ogni giorno fatica, si spende, si adopera, la cosiddetta avvocatura che “consuma quotidianamente le suole delle scarpe” nelle aule di udienza, è per me immediato, quasi scontato ed automatico. L’avvocatura italiana infatti, non diversamente dalla società italiana, ha conosciuto negli ultimi anni l’aumento esponenziale di fenomeni di occupazione non retribuita, scarsamente retribuita, o comunque priva di prospettive di crescita professionale ed economica accettabili. Il tutto mascherato da nomi tecnici ed altisonanti: “stage”, “pratica”, “tirocinio”, “formazione”.
La verità è che dietro lo sfruttamento delle masse di cittadini che affollano l’offerta di lavoro contemporanea c’è solo una diversa modalità di presentazione del furto di valore che da sempre, seppure in varie forme, i forti, i ricchi, i potenti ed i prepotenti, adottano nei confronti dei figli del popolo.
Negli scorsi mesi, anche a causa di alcune mie dichiarazioni sprezzanti, non comprese, e certamente non veicolate nel modo giusto, il mio rapporto con questa avvocatura “di fatica”, si è incrinato bruscamente. Molti colleghi hanno ritenuto che la mia critica a quel modello operativo, una critica urticante, a tratti decisamente fastidiosa, mirasse a travolgere l’esistenza di chi quotidianamente si dà da fare per tirare avanti. La realtà è un po’ diversa: ciò che io miravo a far capire, senza esserci evidentemente riuscito, è che il modello troppo spesso “santificato” dalle istituzioni forensi, quello dell’avvocato “faticatore”, esempio di virtù e modello di ispirazione per giovani aspiranti avvocati, è un modello falso, vigliacco e truffaldino, che noi avvocati dobbiamo rifiutare e ripudiare, senza alcun dubbio.
Il lavoratore e l’avvocato non devono essere felici di faticare tanto e guadagnare poco. Al contrario, devono ambire a guadagnare il denaro sufficiente a vivere una vita dignitosa e serena, sia per se stessi, che per la propria famiglia, destinando al lavoro una quantità del proprio tempo che non annulli la persona ed il suo diritto alla felicità.
I dati che oggi stanno circolando all’interno degli organi di stampa nazionali, non fanno che avallare la penosa incapacità dello Stato e della politica italiana di trovare soluzioni ad una vergognosa situazione dei redditi e dei salari, ormai imposta selvaggiamente da un mainstream dominante e subdolo, che tende a far accettare ogni vessazione, riconducendola al trionfo del reale, senza chiedersi se gli assetti sottesi allo sfruttamento, alla povertà, all’infelicità, siano in realtà tollerabili da una società che voglia dirsi civile.
Non possiamo più permetterci milioni di cittadini poveri, quasi sempre donne, giovani ed abitanti delle realtà più emarginate, delle periferie desertificate. Allo stesso modo noi avvocati non possiamo più tollerare che ci siano in circolazione migliaia di colleghi che faticano tanto, ogni giorno, guadagnando pochissimo. Dobbiamo trovare la forza di spezzare le catene mentali che ci fanno accettare di far parte di questi sistemi, opponendoci, ribellandoci, rivendicando il nostro diritto ad una retribuzione equa e ad una vita equilibrata e potenzialmente felice.
Il tema della gig economy, della precarizzazione del lavoro e dei suoi effetti dirompenti sulla coesione sociale del paese, non può più essere affrontato con superficialità e leggerezza. L’Italia deve trovare il modo di operare scelte che portino ad una sostanziale riequilibrio dell’allocazione del valore e dei redditi che torni a premiare il lavoro e l’impegno dei cittadini, dei padri e delle madri di famiglia, e non sia più amico unicamente della speculazione e della rendita parassitaria. Il fisco, il welfare state, il ruolo del pubblico nel sostegno alla crescita ed all’educazione della prole, sono tutti elementi che si intersecano con un bisogno non più rinviabile di salari più alti, di integrazioni statali alle pensioni più basse, di un ripensamento complessivo dei meccanismi che oggi garantiscono equilibri sociali sempre più sbilanciati, precari e potenzialmente forieri di conflitti distruttivi per la società italiana.
Avv. Salvatore Lucignano