Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione sono recentemente intervenute, con la sentenza n. 11018 dell’8 maggio 2018, per chiarire il regime della prescrizione del danno da sovraffollamento carcerario.
Tale categoria di danno venne enucleata della Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza dell’8 gennaio 2013 (Torreggiani e altri c. Italia), che esaminò la compatibilità delle condizioni di carcerazione di alcuni detenuti italiani col principio sancito dall’art. 3 della Convenzione EDU, secondo il quale: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
La Corte EDU rilevò che “l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”.
Partendo da tale principio la Corte di Strasburgo ritenne incompatibile con l’art. 3 della Convenzione EDU la condizione del detenuto ristretto in celle comuni con altri reclusi, in uno spazio carcerario di circa tre metri quadri pro capite; pertanto condannò lo Stato italiano al risarcimento del danno a favore delle parti attrici edobbligò lo stesso ad istituire un’azione giudiziaria idoneaad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario.
Nell’occasione la Corte evidenziò altri aspetti critici del trattamento detentivo, rilevanti ai fini dell’art. 3 della Convenzione EDU, quali la possibilità di utilizzare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce e all’aria naturali, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base.
Adeguandosi al dictum dell’organo di giustizia internazionale, il legislatore italiano emanò il D.L. 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni, in L. 11 agosto 2014, n. 117, col quale stabilìil diritto del detenuto in condizioni di sovraffollamento carcerario ad una riduzione della pena detentiva ancora da espiare in misura pari ad un giorno per ogni dieci di trattamento detentivo degradante o, se non altrimenti possibile, al pagamento di una somma di denaro pari ad otto euro per ciascuna giornata nella quale questi avesse subito detto pregiudizio.
Il presupposto genetico di tale beneficio fu individuato, dalla normativa, nella sopportazione da parte del detenuto, per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, di condizioni detentive tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il legislatore, peraltro, fissò un termine di decadenza dell’azione diretta a conseguire l’importo pecuniario,di sei mesi, decorrente o dalla cessazione dello stato di detenzione (o di custodia cautelare in carcere) ovvero dalla data di entrata in vigore del decreto-legge istitutivo (28 giugno 2014) per coloro che, alla stessa data, avessero cessato di espiare la pena detentiva(o non si trovassero più in stato di custodia cautelare in carcere).
Tale normativa, sottoposta al vaglio della Corte di Strasburgo, venneda questa ritenuta compatibile con la Convenzione EDU,con la sentenza del 16 settembre 2014 (Stella c. Italia).
Tanto premesso, con la pronunciain argomento, la Cassazione civile individua il termine di prescrizione del diritto alla riparazione pecuniaria (pari ad otto euro per ogni giornata di detenzione in condizioni di sovraffollamento), stabilendo che, a regime, esso è quello ordinario di dieci anni, decorrente dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle indicate condizioni.
Secondo la Cassazione non si tratta di un vero e proprio risarcimento del danno, nonostante che il disposto normativo lo qualifichi in tal senso, atteso che “manca il rapporto tra specificità del danno e quantificazione economica che caratterizza il risarcimento” e che“manca ogni considerazione e valutazione del profilo soggettivo”; si tratta, invece, di un “indennizzo”, ossia “di un compenso di entità contenuta e di meccanica e uniforme quantificazione”.
Invece, per coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima dell’entrata in vigore della detta nuova normativa, fermo restando il suddetto termine semestrale di decadenza per l’avvio dell’azione, il termine prescrizionale opera a decorrere dal 28 giugno 2014, ossia dalla data di entrata in vigore del citato decreto-legge.
Ciò in quanto, per regola generale, la prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.) e, nello specifico, il d.l. 92/2014 ha creato un rimedio nuovo e distinto da quello desumibile dal contesto ordinamentale previgente, sicché non era possibile, prima della sua entrata in vigore, far valere il diritto a tale indennizzo.
Avv. Donatello Genovese