Oggi, 9 maggio 2018, ricorrono i quarant’anni dall’uccisione e dal ritrovamento di Aldo Moro. La scelta della famosa foto che lo ritrae, ormai cadavere, nella Renault rossa in cui fu abbandonato dai suoi assassini, come copertina di questo articolo, oltre che un omaggio alla memoria di un uomo barbaramente trucidato, vuole essere un riconoscimento alla sua memoria intellettuale. Il lascito di Aldo Moro, in termini di tentativo di dialogo, superamento di divisioni, creazione di nuove prospettive politiche, che potessero dare una direzione diversa e migliore al paese, è quasi unanimemente riconosciuto dalla critica storica e politica contemporanea. Ciò ci impone di valutare quella figura nella sua duplice veste: da un lato, l’uomo sconfitto, ucciso, tenuto prigioniero e reso impotente, ma anche il politico abbandonato dal suo partito, condannato a morte, come lui stesso ebbe a scrivere dal carcere, per ragioni probabilmente abiette. Dall’altra, la figura di un uomo libero, integro, capace di analizzare con lucidità una vicenda che non può non definirsi martirio.
Oggi Aldo Moro è uno dei simboli nei quali l’Italia intera probabilmente si riconosce con maggiore ampiezza di consenso. Il suo lavoro, la sua storia, tragica, ma non certo riassumibile interamente negli ultimi 55 giorni di vita, vissuti da prigioniero e poi da condannato a morte, continuano ad orientare il pensiero e l’agire di donne ed uomini che a lui si ispirano.
Tutto questo esprime il senso della prospettiva. Aldo Moro è stato un vinto, ma è innegabile che, in prospettiva, sia stato anche un vincitore. Chi lo uccise fu indubbiamente il vincitore di una lotta legata alla soppressione di un uomo, ritenuto un nemico, ma è certo che oggi quegli assassini siano stati sconfitti, persino ridicolizzati ed esecrati dalla storia, mentre la loro vittima continua a vivere, nelle coscienze e nell’ammirazione di chi la ricorda.
Questo omaggio preliminare non vuole naturalmente legare l’azione mia o di NAD alla figura di Aldo Moro. Ci mancherebbe altro, si tratterebbe di un atto assolutamente risibile. Nel nostro piccolo, in una dimensione infinitamente diversa ed inferiore dell’agire di cui siamo protagonisti, vogliamo ricordare Moro, cercando di ragionare sulla prospettiva e solo su quella, che può dare diverse letture a fatti che appaiano in un modo, nel presente, ma in modo diverso, in un tempo diverso.
Prospettive dunque, nulla di più. Nessun volo pindarico o manifestazione di ego spropositato.
A volte, quando i colleghi mi raccontano dello strapotere della Cosa Nostra Forense, facendomi notare quanto la nostra azione di lotta possa apparire velleitaria, visti gli scarsi risultati, cerco di pormi nella giusta prospettiva. Mi concentro, respiro e comincio a pensare a Nelson Mandela. Chi era costui? Ebbene, dipende dalle prospettive. Perché, se lo osserviamo in un momento “x” della sua vita e della sua storia, Nelson era un negro di merda, sbattuto a marcire in galera. Se invece guardiamo a ciò che è avvenuto dopo, Nelson è stato uno degli uomini più importanti e vincenti del XX secolo, un grande leader nero, capace di sconfiggere il regime della segregazione razziale in sud Africa. Un avvocato: Nelson Mandela era un avvocato, vale la pena ricordarlo, a coloro che spesso ci dicono quanto sia terribile, indecoroso e sbagliato violare certe leggi.
Mandela stesso fu l’espressione di prospettive radicalmente divergenti. Nei suoi anni giovanili lottò, anche con le armi, contro la sopraffazione del suo popolo, mentre fu insignito del premio Nobel per la pace, al riconoscimento della sua straordinaria azione. Guerra e pace dunque, come facce pulite di un solo uomo, a testimonianza che combattere non può essere sempre ritenuto disdicevole, o contrario ai doveri di un avvocato degno di rispetto.
Prospettive, prospettive storiche e politiche. Sono quelle che massimamente mancano all’avvocatura italiana di questi anni. La squalificazione che ha consentito l’accesso a colleghi privi di coscienza politica ci ha consegnato infatti un albo di mestieranti che vivono del mestiere dell’avvocato. L’avvocato, il giurista, il giureconsulto, non ha nulla a che fare con il sopravvivente. L’avvocato in realtà doveva e dovrebbe essere un’altra cosa, ma noi abbiamo perduto questa visione, questa prospettiva. Abbiamo rinunciato alla capacità di credere in qualcosa che vada oltre il contingente, il personale e siamo diventati vittime dell’orrenda banalità della mediocrità intellettuale.
L’avvocatura italiana è così distante da quell’idea di unità, di unicità, di “Ordine”, inteso nel suo senso nobile, da guardare ormai con sospetto persino all’intellettuale. Gli avvocati che osano fare politica forense parlando di concetti che si allontanano dalla banalità vengono spesso isolati. Forme di corporativismo settoriale creano una serie di mondi, chiusi in se stessi, in cui l’universo della rappresentatività si esprime attraverso l’elezione dell’amico, del collega del circondario, dell’aperitivo, dell’abitudine alle udienze del mattino. Ho spesso scritto di come all’interno dell’avvocatura italiana si sia generata una sorta di Spigolatrice di Sapri in salsa forense, una reazione che porta gli avvocati più distanti dal potere della Cosa Nostra Forense ad avversare gli intellettuali che vorrebbero guidarli alla libertà ed alla liberazione. E’ sicuramente frustrante apparire il nemico di chi si tenta disperatamente di difendere, mentre si vede con quanta vocazione all’autolesionismo questi avvocati si affidino al vero nemico, ai collettori del voto clientelare, ai fornitori di piccoli servizi, ai padrini che hanno trasformato l’avvocatura, negli ultimi anni, in un covo di mercanti, dediti a fare i propri affari nel tempio e grazie ad esso.
In questo, sul piano storico e politico, utilizzando lo stesso sguardo prospettico, non posso negare le mie responsabilità personali, lasciandone una traccia chiara, non edulcorata, né mitigata da fattori contingenti. Essere un osservatore fedele dei propri demeriti, quando si è impegnati in una guerra, è sicuramente faticoso. La lucidità necessaria per essere il proprio giudice è invariabilmente sporcata dalla componente soggettiva, ineliminabile, che distorce la verità. Una sorta di principio di indeterminazione, presupposto di qualsiasi assoluto. Ciò nondimeno,nel corso di questi quattro anni e mezzo di guerra, perché di una vera e propria guerra si è trattato e non di altro, ho spesso cercato di trasferire ai colleghi l’autodenuncia dei miei limiti. E’ indubbio che apparire sprezzante verso un certo tipo di compromessi possa alienare consensi, così come non posso negare che un’asprezza caratteriale, acuita dalla fatica e dalla solitudine della lotta, abbia forse contribuito a dare di me un’immagine di distanza da quegli stessi avvocati per cui mi batto. Tutto vero, tutto giusto, tutto innegabile. Allo stesso tempo non si può negare, se si osserva la vicenda della Cosa Nostra Forense italiana, che i tentativi di opporre alla cupola una battaglia davvero radicale, al di là dei toni, dei modi e dei limiti soggettivi, sono stati in questi anni quasi del tutto inesistenti. La guerra di liberazione dalla piovra ordinistica ha visto pochissimi combattenti, spesso male armati e peggio organizzati, alcuni simpatizzanti e pochi, davvero troppo pochi generali, capaci di condurre le truppe.
Le contraddizioni in cui siamo immersi del resto, analizzate e descritte già in molti miei precedenti articoli, sono immense, dolorose e difficili. L’avvocatura è distante dalle sue stesse sorti, ripiegata in una concezione delle cose che ha assunto tratti di fatalismo angosciante. La speranza, persino quella, comincia a latitare sempre più nei discorsi dei colleghi ed io stesso non posso negare di essere umanamente, profondamente toccato dalle notizie degli abbandoni, dalle cancellazioni dall’albo di quei colleghi con cui nel 2014 ho sostenuto le prime battaglie. Faccio fatica anche a metabolizzare, nei limiti del tempo presente, l’uscita di scena di quegli avvocati con cui, in questi anni bui e infami, ho provato a costruire un fronte di resistenza più ampio. No, decisamente non sono i procedimenti disciplinari, le querele, la radiazione dall’albo, ciò che mi amareggia. Non è nemmeno la solituine della lotta, perché, nonostante la nascita di NAD mi abbia dato un ambiente familiare, che combatte insieme a me e meglio di me, essa rappresenta probabilmente la dimensione ineliminabile di ciascuna lotta. Quello che fa male è contare le vittime attorno a noi, constatare il trionfo effimero dell’incapacità e dell’inettitudine, vedere colleghi che mollano, che lasciano, che non credono più in niente.
Siamo diventati una categoria in cui al nichilismo, ormai diffuso e radicato, della base, si oppone la vuota e retorica fanfara delle istituzioni. Nastrini, iniziative ad uso delle telecamere, paroloni roboanti, pace nel mondo, guerra alla guerra ed altre puttanate, sono il pane quotidiano di una Cosa Nostra che tenta così di allontanare i colleghi dalla crisi, dalla scomparsa dell’avvocatura di massa, dalla consapevolezza che l’Ordine Forense, così come è oggi, serve solo ad arricchire qualche padrino senza scrupoli, ma non ha alcuna utilità da dare agli avvocati italiani e ancora peggio, è nocivo, distruttivo, una vera calamità per l’avvocatura.
Ecco, questo concetto, questo apparente controsenso, incarnato da un Ordine Forense che prospera, domina, come istituzione, ma nel contempo sta uccidendo l’avvocatura, è forse uno degli elementi cardine del pensiero politico di NAD. Noi osteggiamo l’identificazione tra avvocatura ed istituzioni, tra occupanti pro tempore delle stesse ed istituzioni, tra padroni e ruoli di servizio. Rifiutiamo in modo drastico, radicale, totale, questo processo di imbarbarimento della professione forense, in cui il potere giustifica se stesso per mezzo del potere, in cui la violazione delle regole è la regola, la violenza e la sopraffazione, assistite dall’irrazionalità, sono la norma, in cui il più forte è chi comanda e non chi ben ragiona o ben conosce. Questa non può essere un’avvocatura autorevole, queste non sono istituzioni che possono ottenere il nostro rispetto, ed è per questo che noi le combattiamo, con lo scopo di sovvertirle.
Non si può negare che la fatica del cambiamento, di cui pure spesso NAD ha parlato, sia molta. Persino la fatica dell’esposizione è tanta, porta a produrre articoli non sempre qualitativamente all’altezza, impone sforzi che si fa fatica ad accettare, anche se comparati alla loro resa, in termini di mutamenti che producono. I dubbi sono propri dell’uomo, di qualsiasi uomo, anche di chi combatte senza paura. La paura non è quella del nemico, o delle conseguenze del proprio agire, bensì quella di non essere all’altezza, di dare alla sfida, per la sua radicalità, un taglio caricaturale, quasi clownesco. Questa paura c’è, inutile nasconderlo, mi accompagna nelle lunghe giornate di lotta, nelle riunioni con i colleghi del movimento, nelle notti di riflessione su quanto stiamo facendo e sta accadendo nell’avvocatura italiana.
Del resto mettere insieme le ansie, le frustrazioni, la rabbia che a volte anche trabocca, a causa di un nemico che appare distante, intoccabile, lontano da quella dimensione “fisica” dello scontro che darebbe maggiore soddisfazione, non è facile. Tenere tutto insieme, dominare la stanchezza, l’amarezza, la consapevolezza di muoversi in un contesto degradato, cinico, disattento, fa male. Bruciano i tanti tradimenti, i molti mediocri pronti a gettare fango sulla nostra lotta, ma brucia ancora di più l’opportunismo di certi compagni di viaggio, sempre pronti a scambiare il sostegno dato ad una lotta ideale, per un supporto ad ambizioni di tipo personale. Fortunatamente NAD si ripulisce periodicamente da forme di basso o alto arrivismo. Siamo un’associazione molto sana, in cui gli elementi portatori di negatività sono davvero pochi. Certo, siamo un’aggregazione di donne ed uomini, non siamo automi, vivremo sempre questa possibilità, l’associazione non può essere impermeabile ai rischi di contaminazione, da parte di condotte e aspirazioni personalistiche. Combattiamo per tenere la barra dritta, ma non possiamo fare miracoli, né controllare le menti di chi si avvicina a noi.
La prospettiva storica e politica, quella che consente di valutare le azioni ed il lascito intellettuale di un uomo ben oltre la sua vita mortale, sono un grande conforto all’agire di questi anni. Coltivo la speranza che ciò che stiamo facendo non sia vano, che giovani avvocati, in futuro, vicino o distante, possano guardare a questa guerra di liberazione dalla Cosa Nostra Forense con attenzione e rispetto. Questo mi consente di andare avanti, ritornando ai valori che mi hanno spinto a cominciare la guerra: il desiderio di un’avvocatura finalmente rinata, riqualificata, retta dai migliori, da persone oneste, altruiste, disinteressate e capaci. Un sogno, sicuramente, ma anche un dovere, morale, deontologico ed intellettuale, a cui non sento di potere o volere abdicare.
Avv. Salvatore Lucignano