L’analisi sull’avvocato artificiale dimostra con chiarezza che la legge professionale forense, seppur entrata in vigore da pochi anni, sia totalmente da buttare. La ferita profonda inferta da questo testo, sciatto e sclerotico, alla spinta innovativa che l’avvocatura dovrebbe sostenere, è innegabile. Ormai sappiamo che i numeri del distacco tra padrini dell’avvocatura italiana e massa non politicizzata hanno assunto proporzioni spaventose. La Cosa Nostra Forense non riesce in alcun modo ad essere in sintonia con le opinioni dell’avvocatura che non vota, mentre il voto, quando si esprime, viene orientato, nella sua parte determinante per assegnare le vittorie, da conclamati e notori fatti di corruzione, clientelismo, familismo e personalismi scevri da qualsiasi logica politica, di modo che ciò che ne viene fuori, dal punto di vista qualitativo, esprime il peggio della rappresentanza possibile.
Quantità, anche in democrazia formale, non fa rima con qualità. Se questo si inserisce nei problemi della rappresentanza politica contemporanea, non possiamo negare che l’avvocatura, che pure avrebbe dovuto riflettere sulle basi teoriche dei suoi sistemi di governo, sia stata assolutamente incapace di fare la sua parte, sia sul piano culturale, che normativo. L’impianto definito dalla L. n. 247/2012 contiene una tale sfilza di bestialità da aver dato luogo a leggendarie diatribe, protrattesi per anni, sul senso delle sue norme. In questo senso c’è una tematica posta all’ordine del giorno dalla cupola, al Congresso Nazionale di Catania, in programma ad ottobre, che incarna la confusione mentale all’interno del regime: il chiarimento “definitivo” sulla natura dell’Ordine Forense. Si tratta di un elemento di discussione che, a quasi sei anni dalla nascita della 247/12, non può che apparire grottesco, o tragico, a seconda di come si voglia vedere la cosa. L’assenza di chiarezza circa la natura dell’Ordine Forense, ammessa dalla stessa Cosa Nostra Forense, non deriva infatti dall’impossibilità di interpretazione letterale del dato normativo.
L’art. 24 della legge professionale forense definisce le ragioni della sua esistenza, da ricomprendere senza alcun dubbio nella necessità, avvertita dallo Stato, di assicurare una giustizia efficiente, per mezzo del ruolo dell’avvocato, quale cultore dei mezzi necessari a concorrere alla piena affermazione dei diritti dei cittadini. L’Ordine Forense non nasce per tutelare le esigenze professionali dei suoi appartenenti, nonostante la Cosa Nostra Forense, soprattutto negli ultimi trent’anni, con il progressivo clientelismo che ha permeato le istituzioni forensi, abbia trasformato la “ragione sociale” dell’Ordine, pretendendo di fargli assumere vesti sindacali, del tutto estranee alla ratio sottesa alle norme che l’hanno istituito. La distonia tra l’art. 24 della L. 247/12 e la pratica adottata nel sistema ordinistico è dunque la sola vera ragione della necessità di fare “chiarezza”. NAD si è spesso occupata di questa insanabile contraddizione. L’avvocatura italiana doveva ragionare apertamente sulla natura dell’Ordine, prima di approvare frettolosamente una legge professionale che non coglieva i dati di fatto emersi all’interno della categoria, ma la Cosa Nostra capeggiata da Zù Guido Alpa, al Congresso di Bari del 2012, aveva fretta di cristallizzare lo strapotere della cupola e a quell’altare si è sacrificato tutto, inclusa una matura ed avanzata proposta di superamento della dicotomia connaturata ad una visione statica degli Ordini professionali. Un errore gigantesco, tenuto conto che le spinte corporative, sul piano politico e fattuale, non sono una novità per gli Ordini, ma sono storicamente accertate e ben note, risalendo già alla vicenda storica delle gilde medievali.
Insomma, nel 2012 si doveva aprire un percorso normativo che proiettasse l’avvocatura nel futuro, superando la concezione statica dell’Ordine Forense, ma si è gettata al vento un’occasione, approvando una legge professionale sciatta, che presenta un volto tristemente puntato al passato e non ha la minima possibilità di descrivere ed aiutare il governo del presente.
Tutti i guasti derivati dall’imperizia dolosa di Alpa e della sua banda si sono riversati a cascata sugli avvenimenti di questi ultimi anni. Priva di una definizione politicamente unificante, di una rappresentanza in sintonia con i suoi esponenti, l’avvocatura italiana non ha trovato di meglio che specchiarsi nella frammentazione feudale dominata dai Consigli circondariali, vere e proprie mafie locali, spesso nemmeno integrate nella mafia nazionale. La legge professionale, anche su questo versante, ha donato mele avvelenate in quantità smodata, introducendo nel dibattito politico dell’avvocatura il concetto di “rappresentanza istituzionale”, ovvero di un istituto giuridicamente inesistente, al fine di attribuire ai padrini della cupola i pieni poteri sulla categoria. Il dramma però non può essere ridotto ad una legge impresentabile, ma va inquadrato in una classe che non è riuscita a fare da contraltare allo strapotere di Guido Alpa, consentendo a questo vecchio avvocato, senza prospettive e totalmente estraneo alla contemporaneità, di ordire un articolato privo di senso, logico e politico. Rappresenta una ferita ed un’onta per l’intera avvocatura italiana il non aver voluto contrastare un disegno che un giurista mediamente dotato avrebbe immediatamente tacciato di inutilizzabilità. Ciò non è avvenuto, chi doveva parlare ha taciuto ed oggi l’anarchia che si respira in seno alla classe è la logica conseguenza di istituzioni autoritarie, che fondano il proprio arbitrio su norme irragionevoli, impresentabili ed indifendibili.
La rappresentanza istituzionale infatti, semplicemente, non esiste. Il Consiglio Nazionale Forense è nominato con criteri oscuri ed ignoti e gestisce la Cosa Nostra Forense con pieni poteri. Non c’è un solo elemento programmatico che i padrini della cupola debbano rendere noti ai loro rappresentati, ma ciò non desta scandalo, come se la possibilità di fare qualsiasi cosa non sia la negazione di quei principi di civiltà giuridica per cui gli avvocati, ancora oggi, lottano e vengono imprigionati in varie parti del mondo.
L’intero sistema istituzionale forense, grazie ai continui abusi, alle invasioni di campo, alla bulimica ridondanza di organi, funzioni, proclami ed iniziative, è oggi un gigantesco gioco di ruolo, che incide pochissimo nella realtà sociale del paese e che ha con la politica un rapporto di sostanziale vassallaggio, rotto da partnerships fondate su scambi politico clientelari. Manca del tutto l’autonomia politica di una classe che esprima un proprio governo, rappresentativo di tutte le anime che compongono la professione, in grado di operare sintesi unitarie a partire dalla pluralità dei mondi che compongono la galassia degli avvocati italiani.
La legge è dunque uno strumento che impedisce di governare la classe, ma assicura, al contrario, tutti gli strumenti più odiosi utili a vessarla. L’obsolescenza da cui prende le mosse questo articolo si riflette infatti massimamente nelle infinite ed insensate gabelle, negli obblighi e nelle limitazioni che la 247/12 ha imposto all’avvocato massificato, trasformato in cottimista, proletarizzato e legato a rituali che lo pongono in un rapporto con l’Ordine Forense non dissimile da quello che i servi della gleba vivevano nei confronti del proprio signore.
Il regolamento per l’accertamento della cosiddetta “continuità professionale” ha fotografato tutto ciò che l’avvocato non dovrebbe necessariamente essere, per trasferire una serie di caratteristiche assurde ed insensate nelle previsioni di appartenenza alla classe. L’aspetto più grottesco di questa vicenda è che la parte più ricca ed indipendente dell’avvocatura, quella che fa affari ed è inserita nei meccanismi che generano il maggior valore economico all’interno della società, è totalmente estranea allo spirito di queste norme, potendo svolgere la propria attività in modo sostanzialmente indisturbato, continuando a produrre valore e reddito, infischiandosene di grida manzoniane relative ai requisiti che l’avvocato dovrebbe forzosamente possedere.
La ricchezza e la capacità di operare sono state introiettate nella legge, definendo un avvocato di serie A, opulento ed autonomo, e separando nettamente tale figura, augusta ed intangibile, dal volgo, dalla massa di sopravviventi, costretti a misurarsi con mille adempimenti, necessari a tenere in piedi il sofisticato sistema di espedienti che gli dà da vivere. La Cosa Nostra Forense si è inserita, come una vera mafia, in questo bisogno di istituzionalizzazione. La Cosa Nostra Forense si è fatta tramite delle operazioni burocratiche necessarie all’avvocato massificato per poter tirare la carretta. L’Ordine è diventato così il potere di riferimento della plebe, a cui rivolgersi per ottenere servizi, favori, pratiche che permettano all’avvocato diminuito di essere in regola con le formalità previste dalla cupola e poter così tentare di sbarcare il lunario.
Il rapporto simbiotico tra avvocato diminuito e Cosa Nostra Forense ha definitivamente drogato la capacità dell’avvocato di essere autonomo centro di valutazione politica, trasformando il voto, da momento di scelta progettuale, da visione sul futuro della professione e della giustizia, a certificazione di rapporti clientelari, amicali, personali. La mafia forense, basata sui favori che l’Ordine fa ai suoi elettori, ha così santificato il voto di scambio, portando i meccanismi della Cosa Nostra, quella vera, fin dentro le istituzioni forensi e rendendo indistinguibile la funzionalità utile allo sviluppo della classe da quella utilizzata dai padrini per ottenere un consenso teso alla conservazione dello status quo. Grazie alla confusione, all’incapacità dell’Ordine di normare correttamente se stesso, l’illegalità e l’immoralità si sono fatte sistema, assistenza, assistenzialismo, sostrato culturale dei movimenti di opinione favorevoli alla cupola, linfa e garanzia di impunità e santità.
E’ qui che si conclude questo breve viaggio tra l’obsolescenza e le esternalità della 247/12. Osservando il rapporto drogato tra servizi resi alla folla affamata e potere, consenso politico di cui godono i padrini della Cosa Nostra Forense, l’avvocato libero ed indipendente non può non interrogarsi sulla funzione alta e pulita della politica forense. Oggi, grazie al voto di scambio, alle clientele, alla dominazione che la Mafia Forense può esercitare sull’avvocatura, l’avvocato/elettore è immerso in un sistema di valori fallaci, drogati, per cui vede nel suo torturatore una sorta di benefattore. L’avvocato italiano che si sente integrato nella Cosa Nostra Forense applaude chi gli offre il certificato, chi lo nomina nella Commissione che si occupa di ornitologia forense, chi gli fa ottenere crediti formativi illegalmente. Questo sistema clientelare, questo gigantesco malaffare, che scambia e vende utilità personali, spicciole, in cambio dei voti, viene definito dalla Cosa Nostra Forense come la vera “politica forense”.
La verità è che queste utilità, marginali e spicciole, concesse all’avvocato schiavo dell’istituzionalizzazione, distruggono il senso e la funzionalità vera della politica. L’avvocato asservito alla Cosa Nostra Forense dimentica che la politica è progettualità, visione degli interessi generali, capacità di uscire dalle logiche dello scambio personale e amicale, per arrivare ad ottenere utilità che si riflettono nell’autonomia del soggetto elettore. L’avvocato italiano innamorato della cupola si fa comprare dai pesciolini, dalle briciole che i padrini della Mafia istituzionale gli gettano, prendendoli dalla tavola riccamente imbandita a cui sono seduti.
L’avvocato schiavo della cupola non ambisce ad una politica forense che lo metta in condizione di pescare da solo grossi tonni, in mare aperto, ma continua a cibarsi a stento dei pesciolini che i padrini gli gettano, di tanto in tanto, osannando questo meccanismo, diventandone spesso i più fieri sostenitori, in una versione distorta della famosissima Spigolatrice di Sapri.
Questo è l’aspetto che deve consentire alla politica forense sana di declinare correttamente il concetto di esternalità, come costo sociale connesso al crescere di utilità personali e marginali. Fino a quando NAD non riuscirà a far comprendere agli avvocati liberi che il costo complessivo del mantenimento in vita della Cosa Nostra Forense si scarica sui redditi e sulla vita dell’avvocatura in misura assai più ingente di quanto si possa pensare, il sistema reggerà all’impatto della libera critica. Se non si riesce a dimostrare che le utilità che deriverebbero agli avvocati schiavi dal sovvertimento della Cosa Nostra Forense si tradurrebbero in maggiori redditi, una professione più libera, più vicina ai bisogni e alle istanze dei colleghi, anche se ne deriverebbe la rottura di certi meccanismi di “inclusione” clientelare, è evidente che la cupola avrà buon gioco nel continuare a spacciare il proprio assistenzialismo per buona politica.
Ecco perché la teorizzazione delle esternalità di sistema è fondamentale. Occorre costruire una nuova cultura politica, che faccia breccia nelle menti degli avvocati italiani liberi, al fine di mostrare che la democrazia e la libertà sono convenienti, rispetto all’assistenzialismo corrotto della dittatura.
Avv. Salvatore Lucignano