IL DANNO DA TARDIVA DIAGNOSI DI PATOLOGIA INFAUSTA

4 Aprile, 2018 | Autore : |

Con l’ordinanza del 23 marzo 2018, n. 7260, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione affronta la problematica del danno da colpa medica consistente nella  tardiva diagnosi di una patologia infausta.

La parte attrice aveva convenuto in giudizio due medici, l’azienda sanitaria locale di appartenenza e le relative compagnie assicurative per ottenere il risarcimentodel danno subito dal proprio stretto congiunto in conseguenza della tardiva diagnosi di una patologia infausta (adenocarcinoma polmonare), la quale ne aveva provocato il decesso.

La Corte d’appello di Roma, riformando la pronuncia favorevole del Tribunale capitolino, aveva ritenuto non meritevole di risarcimento il fatto, assumendo che non vi fosse alcun nesso di causalità tra la tardiva diagnosi e la morte, dato che quest’ultima si sarebbe comunque verificata anche in ipotesi di diagnosi tempestiva, e che, inoltre, mancasse la prova che il paziente avrebbe adottato scelte di vita diverse,se avesse avuto tempestiva consapevolezza delle proprie effettive condizioni di salute.

La Corte Suprema, non condividendo il percorso argomentativo della decisione di secondo grado, riconosce al paziente il “diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto”, la cui violazione “vale a integrare la lesione di un bene già di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno così inferto sulla base di una liquidazione equitativa”.

Evidenzia la Cassazione che la consapevolezza della malattia consente al paziente di scegliere “una strategia terapeutica”, oppuredi ricercare“alternative d’indole meramente palliativa”, o ancora di decidere di “vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all’ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine”.

Secondo gli Ermellini “anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose”.

Sulla base di tali premesse la Corte enuncia il seguente principio di diritto: “La violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto, non coincide con la perdita di chances connesse allo svolgimento di singole specifiche scelte di vita non potute compiere, ma nella lesione di un bene già di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere, una volta attestato il colpevole ritardo diagnostico di una condizione patologica ad esito certamente infausto (da parte dei sanitari convenuti), l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno così inferto sulla base di una liquidazione equitativa”.

In definitiva, il malato grave ha il diritto di saperesubito, sempre e comunque, a quali conseguenze va incontro. Anche una pietosa bugia può costare cara al sanitario reticente.

Avv. Donatello Genovese

 

 

 

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