La lunga morte dell’avvocatura italiana snoda il racconto tra le vie tortuose dell’insipienza e della bulimia. Lo slalom tra le rappresentazioni pittoresche di una moralità araldica e gli stratagemmi operosi dei monatti del sottobosco tribunalizio non riesce a concludersi senza inforcare. A volte dimentichiamo che i bei tempi non ci sono mai stati e che le categorie del pensiero debole che compongono la storiografia avvocatesca italiana sono purtroppo opere di cinematografia manieristica. Siamo lontani mille miglia dalla storia: i fatti, le verità, i vissuti dei paglietta, divergono dalla tradizione popolare, dal cantico dell’urbanità.
Abbiamo trascorso secoli a cercare di convincere il mondo che l’avvocato fosse un cercatore di santità, ma siamo stati travolti dal galateo scorretto di Vincenzo Morenio, dai sollecitatori, dai finti avvocati, dai procacciatori di favori e dai venditori itineranti di false testimonianze.
“Avvocà, voi dovete dire che io venivo da destra…” recitava un cliente famosissimo, mentre il povero collega spiegava al Percuoco che, nel caso di specie, l’investito era un pedone.
La storia dell’avvocatura italiana del 900 è figlia dell’etica nicomachea della Milano da bere. Un romanzo criminale in cui santi, poeti, truffatori, navigatori e somari hanno convissuto, accomunati da un titolo che si è lavato la faccia mille volte e mai è riuscito a scrostarsi di dosso il tanfo del ghetto. Le lunghe tuniche nere, sentimento intessuto di bramosia di verità, non coprono i piedi dei viandanti, mentre il fango delle strade di campagna schizza fin sopra ai ginocchi.
Somma ingiuria nel voler vivere e politicare, inventando le rime del compromesso, imparando a sorridere ai lunghi corridoi dei palazzi cadenti in cui si esercita la tracotante incertezza della legge.
“I bei tempi non ci sono mai stati!” ripeteva un vecchio adagio.
Questo piccolo concentrato di saggezza peripatetica scioglie il fango attaccato alle membra, ma non risolve i morsi allo stomaco di un popolo che chiede pane e lavoro. Si, è giusto, vi daremo tutto ciò che è possibile, “si es posible”.
Non si può negare che l’avvocatura da bere e quella dabbene abbiano spesso giocato a nascondino, rincorrendosi nei vicoli bui del malaffare, inciampando lungo le scritture contorte delle sentenze tombali, spesso attendendo un vento capace di sgretolare lapidi apparentemente inscalfibili, ma friabili, sotto il peso dell’oro e dell’argento.
“Pezzi da otto! Pezzi da otto!” sono soliti urlare i figli della plebe, mentre le palandrane del sapere fanno roteare le dita come scimitarre, strizzando l’occhio al priore turnista.
Nella commedia aristotelica il fine ultimo dell’agire non concorre ad accumulare ricchezze terrene. Gli avvocati dabbene, si sa, muoiono poveri, mentre i possidenti non sono avvocati, ma avvocatissimi. Le sfere concentriche dell’esaltazione dell’antiavvocato non comprendono gli iracondi, né gli onesti, ma circondano i lestofanti, gli avari, i prodighi, i lussuriosi, i traditori e giù, fino alle malebolge, dove si vota ciò che si vuole, purché sia fatto senza chiedere, o al massimo, senza confessare.
Abbiamo osato pensare che l’etica potesse sostenere l’agire di un mare in tempesta ed abbiamo dovuto ricrederci. Il film va avanti, per pochi, mentre il mestiere si mangia le parole.
Angelo Falzea scriveva: “quando il Consiglio nazionale forense, nei compiti disciplinari e di gestione degli albi professionali, esercita la sua funzione giurisdizionale, non si pone come giudice speciale nella applicazione del sistema normativo legale, bensì come giudice (etico) nella applicazione del sistema normativo etico che governa l’attività della professione forense“.
E’ il trionfo dell’etica, il pudore del bene che sconfigge ogni forma di oscurità. Nell’essere giudice del giusto, il sommo Consiglio chiude e santifica, purifica e incendia, salva le anime prave e macera nella perdizione della penitenza i malvagi e i peccatori.
Fare politica è in fondo opera di estrema saggezza. I Principi del diritto hanno lunghe parrucche, cucite con fili d’oro, fermate da grosse catene, ai polsi e alle caviglie. E’ l’elegia del sacro, che si oppone incessantemente alle tentazioni demoniache e selvagge del mostro meridiano. In una mano il Principe regge le chiavi del regno dei cieli, nell’altra maneggia un mazzo con cui scommette sui beni terreni. Il detto e lo star del credere vincono sulla ruota di Venezia, mentre il commesso viaggiatore non riesce nemmeno a strappare al suo odiato nemico il minimo brandello di cuore.
Nei primi anni del secolo breve un misurino d’olio era il prezzo della fatica nei campi. Cominciò così, dai campi, la carriera di quelli che avrebbero chiesto più olio, più lavoro, più giustizia sociale. Altri tempi, quei bei tempi che non ci sono mai stati. Oggi è il tempo degli emuli e degli epigoni, tra ricchi gettoni d’oro e bavagli di stoffa acrilica, perché il reverendo sa e dice la legge, il sasso rompe la forbice e non c’è verso di averla vinta, perché ha sempre ragione LVI.
L’etica nicomachea supera la concezione utilitaristica del mestiere dei dadi, avvolge le armi in carta unta e bisunta, corrobora lo spirito degli uomini evoluti, separa i cavernicoli dai gentili. Abbiamo dato milioni al pueblo, ma ora manca la materia per stampare a buffo. Da questo scenario vien fuori il germe della rivolta, ma l’etico impone di moderarsi. Forti con i deboli e servili con i forti, mai troppo alti, né bassi. Giusti, medi, indifferenti q. b. e pronti a dire che il domani sarà radioso e traboccherà di vittorie sull’Estasia.
Oggi niente patti, né compromissioni. L’intero insieme è forgiato in stampi di bronzo e rame, colonne di fortezza ardono, a guardia della porta. Credere, strisciare, combattere, ma comunque e prima di tutto sopravvivere. Su quella porta, parole di colore oscuro ricordano a chiunque voglia liberarsi dai vincoli dell’abitudine, che per far parte degli angeli cattivi basta davvero poco, a volte solo aver fretta.
L’etica del servitore è fatta di disobbedienza. Chi sa servire sa anche ribellarsi, mentre chi ama rinnegare l’etica e limitarsi al servizio, non fa che ambire all’avvocato da bere.
Avv. Salvatore Lucignano