AVVOCATURA: NUMERI SENZA SCAMPO

17 Marzo, 2018 | Autore : |

 

La diffusione di nuovi numeri da parte della Cassa Forense non lascia presagire nulla di buono per il futuro.

 

I numeri dell’avvocatura secondo Cassa Forense, aggiornati al 2017

 

Aumento di oltre 1000 unità del numero complessivo di iscritti, che si attestano a circa 243 mila (242.796, per l’esattezza) . I dati mostrano un decremento del tasso di crescita, che ammonta allo 0,4% nel 2017, ma continuano a fotografare un’avvocatura con redditi stagnanti, con un monte redditi sostanzialmente invariato rispetto agli scorsi anni , pari a 8 miliardi e 500 milioni nel 2017,  (era 8 miliardi e 400 milioni nel 2015) mentre il reddito medio pro capite per ciascun avvocato italiano si attesta a 38.400 euro (era 38.300 euro nel 2015).

L’avvocatura italiana continua a non riuscire a fronteggiare una pressione all’ingresso che appare dettata da fattori irrazionali, mentre non accennano a risolversi gli squilibri di carattere regionale o locale, che portano alcune realtà territoriali a caratterizzarsi per una miscela letteralmente esplosiva di densità di avvocati e carenze del sistema giustizia, configurando sacche di inefficienza e proletarizzazione della professione che dovrebbero destare toni ben più allarmanti, rispetto a quelli, rassicuranti e distaccati, propugnati dalle nostre istituzioni forensi.

L’invecchiamento dell’avvocatura è un fenomeno conseguente alla riduzione del tasso di incremento dei nuovi avvocati all’interno dell’Ordine Forense e viene visto dalla previdenza ufficiale come un fattore di rischio per la stabilità del sistema pensionistico. Nessuno però si preoccupa di affrontare seriamente le prospettive di crescita reddituale degli avvocati più giovani o delle donne, che in questi anni hanno massicciamente invaso l’albo, ma che continuano a vivere una situazione di minorità reddituale che mina alla radice le proprie possibilità di crescita e di indipendenza.

 

I numeri ufficiali peraltro continuano ad ignorare il fenomeno del distacco, sempre più marcato, di alcune fasce dell’avvocatura italiana dal sistema dell’istituzionalizzazione forense. Se in questi ultimi tre o quattro anni i redditi dell’avvocatura, nel suo complesso, hanno dimostrato una certa tenuta, è solo in ragione della ripresa del fatturato per i grossi studi associati. Un’indagine accurata sull’avvocatura di base, specialmente nelle zone ad alto tasso di densità di avvocati, mostrerebbe una situazione del tutto diversa: gli avvocati che vivono, o meglio, sopravvivono, di patrocinio a spese dello Stato, di difese d’ufficio, di piccoli espedienti, arretrano paurosamente, mentre l’aspettativa reddituale complessiva, se proiettata all’intero arco lavorativo del professionista, non lascia presagire nulla di buono per il futuro, contribuendo a rendere ancora più drammatico il presente.

A questo stato di cose, pur se ormai si tratta di aspetti noti, le istituzioni forensi non pongono alcun rimedio, limitandosi a cancellare il problema della proletarizzazione dalla propria agenda politica.

La tragedia degli avvocati giovani e sfruttati, delle donne che guadagnano la metà degli uomini, di una rappresentanza che non accenna a ringiovanirsi o a diventare femminile, a causa di interpretazioni normative di comodo, che consentono le proroghe di lustri e decenni a rappresentanti istituzionali maschi, già vecchi e presenti nell’Ordine Forense spesso da tempo immemore, sono tutte situazioni cancellate dal racconto ufficiale delle fanfare del regime ordinistico. Va tutto bene, il 2017 è stato l’anno delle “conquiste” dell’avvocatura (cit. Consiglio Nazionale Forense), ma i redditi dei più deboli continuano a calare, il malcontento cresce, né accenna a migliorare il rapporto di sintonia tra istituzioni apicali e base della categoria. Un apparente paradosso, che però si spiega facilmente, se si analizza la situazione di chi, all’interno della nostra categoria, detiene il potere assoluto e se la passa sempre meglio, a discapito di chi non ha alcun potere e vive sempre peggio.

La fotografia dell’avvocatura italiana non differisce da quanto un confronto con i dati europei avevano già illustrato,  chi avesse occhi per vedere. NAD ne aveva scritto, prendendo spunto dal rapporto CEPEJ, strumento di indagine comparata imprescindibile per la comprensione della realtà giudiziaria italiana ed europea. Ovviamente questo documento non è mai stato messo al centro di un solo dibattito incardinato all’interno dell’Ordine Forense italiano. Le nostre istituzioni preferiscono non vedere, ignorare fatti e dati.

 

RAPPORTO CEPEJ 2016: I NUMERI DELL’INSOSTENIBILITA’

 

La situazione dell’avvocatura italiana non è solo negativa, è catastrofica. Una professione in cui le prospettive di crescita reddituale e operativa sono sempre più asfittiche, che presenta vaste zone opache, di compromesso con pratiche illegali largamente diffuse, seppure taciute dalle istituzioni forensi. Gli avvocati italiani non possiedono alcuna istituzione che indichi una direzione. I numeri della massificazione restano drammatici, mentre il sistema ordinistico si occupa di comandare una parte degli avvocati, lasciando che grandi fette di avvocatura attuino una forma di sostanziale autogoverno, o perché impegnate in processi di accumulo di reddito elitario e slegato da qualsiasi logica collettiva e corporativa, o perché impegnate a sopravvivere e distanti da ogni forma di coscienza politica.

 

 

Nell’assenza di soluzioni e prospettive, nella distanza tra l’ufficialità del racconto e la realtà dei fatti, si nasconde la vicenda dell’avvocatura dei nostri anni: squalificata, impoverita, retorica ed iniqua. Un mare magnum fatto di colpe non rimosse e di alibi pietosi, che non riescono a coprire lo scandalo, ma bastano a zittire la quasi totalità degli appartenenti all’Ordine Forense.

 

Avv. Salvatore Lucignano

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