Attorno all’Ordine forense si addensano le contraddizioni irrisolte di secoli di storia, legata alle gilde, alle corporazioni, al ruolo intimamente corrotto e corruttibile di chi assume funzioni tra di loro naturalmente incompatibili. “Noi ai colleghi offriamo servizi” è la frase tipica di chi difende se stesso, del problema che indica se stesso come soluzione. La domanda infatti sorge spontanea: se coloro che ambiscono a rappresentare gli avvocati sono anche quelli che rivendicano i “servizi” che gli offrono, come si può pensare che il rapporto tra eletto ed elettore sia libero ed improntato a valori scevri dall’utilitarismo?
Nella vita vera il richiamo orgoglioso alle utilità offerte ai propri elettori si chiamerebbe “voto di scambio“. E’ dunque normale che nell’avvocatura italiana, nel suo sistema ordinistico, si rivendichi in lungo e in largo questo presupposto criminogeno. Quella Paperopoli, che il giornale del Consiglio Nazionale Forense ha definito “surrealismo”, è in realtà un nitido ritratto, fedele e didascalico, di una dimensione degradata delle espressioni forensi collettive.
“O’ sistema” non si nasconde, né arretra, ma rilancia. Il motore che viene riconosciuto dalla nostra classe è l’utilità. “Io offro cose a te e tu in cambio mi concedi il potere. Io chiudo gli occhi su ciò che dovresti essere e tu volti la testa dall’altra parte mentre io uso i ruoli che mi concedi per fare i miei interessi”. Andiamo avanti così da interi lustri e non c’è da meravigliarsi se i denunciatori della corruzione imperante tra gli avvocati italiani godano di cattiva stampa tra i loro “colleghi”: è naturale, ovvio, per certi versi persino scontato.
Il cambiamento potrebbe venire da un ripensamento complessivo delle basi che identificano questo insieme eterogeneo, ma perché ciò avvenga occorrerebbe una convergenza ideale che tarda a venire, lasciando mano libera ai dispensatori di utilità. Il concetto dello scambio, del resto, è stato esportato anche in altri ambiti della politica forense: non è solo l’Ordine ad essere corrotto. Sono corrotte le associazioni, sono corrotti i magistrati, i politici, i semplici avvocati che si muovono ai margini di questa galassia magmatica e caotica.
La cifra dell’avvocatura italiana è lo scambio corruttivo. I voti si sommano e si vendono, i programmi si tradiscono, gli organigrammi si compongono con riti degni delle migliori tradizioni dell’occultismo. Uno spettacolo brutale, reso ancora più grottesco dal superamento storico delle prerogative elitarie che consentivano ai corruttori del passato di raccontare fiabe e leggende di nobiltà.
Non desti dunque alcuno scandalo l’approdo sfacciato e volgare a cui siamo giunti il 7 ottobre 2016: quella spavalda affermazione del potere per mezzo del potere, che ha negato alla radice il valore della libertà degli avvocati italiani, inserendoli a forza nel “sistema”. Sono valutazioni già fatte, che nulla aggiungono forse al disfacimento della professione forense, ma che potrebbero assumere un valore politico, se il processo di degenerazione ed imbarbarimento dello scambio utilitaristico generasse la reazione di un nucleo di avvocati decisi a sottrarsi a tali prassi, per rifondare una professione ormai morente.