L’articolo 69 n. 1 del Codice Deontologico Forense parla di imparzialità con cui occorre adempiere agli incarichi all’interno delle istituzioni forensi. Non essere imparziali comporta, secondo lo stesso articolo, al comma 5, la sanzione disciplinare della censura. In questi giorni, di fronte alle polemiche sull’assenza di una norma ad hoc che impegnasse alcune cariche istituzionali forensi al rispetto dell’imparzialità, due questioni, di ordine giuridico e politico, mi pare siano state affrontate con la solita sciatteria ed ignoranza con cui gli avvocati italiani trattano le vicende che riguardano l’Ordine Forense:
- cosa si intende per imparzialità? In quali ambiti si può estendere la definizione?
- l’assenza di una norma ad hoc, che imponga dimissioni a quegli avvocati che, nello svolgimento del proprio incarico, si mostrano “parziali”, non è vanificata, quanto all’obbligo di dimissioni, proprio dalla disposizione di cui all’art. 69 comma 1 del codice deontologico?
Si tratta ovviamente di domande a cui non è difficile dare una risposta. Per quanto riguarda la prima: pochi ambiti come quello politico possono fruttare la qualifica di “parziali”. Un politico, un esponente politico, un candidato al Parlamento italiano, che abbracci una parte, è ovviamente parziale, non può essere imparziale, non può essere equidistante, perché il suo stesso essere candidato ne fa un elemento “di parte”. A mio parere dunque non sussistono dubbi: un esponente delle istituzioni forensi che svolga apertamente attività di propaganda politica e partitica, o peggio, che si candidi ad un incarico politico, assumendo un ruolo di per sé “di parte”, non potrebbe continuare a svolgere un incarico istituzionale senza violare l’art. 69 del Codice Deontologico.
Naturalmente la prassi e l’assenza di una casistica basata su esposti in materia non possono scavalcare il senso letterale della norma. Se si è di parte, non conta lo spirito, né la consapevolezza con cui si vive una condizione di fatto. Se ci si candida in un partito politico, si è di parte, per definizione, perché il “partito” è parte e se si è di parte, si è ovviamente parziali, nonostante il desiderio, lo spirito, l’abnegazione stessa con cui si tenti di non esserlo.
Naturalmente il problema non è di natura deontologica, ma politica, perché toccherebbe all’Ordine Forense sciogliere il nodo, dopo un’adeguata riflessione ed un necessario dibattito. Possiamo stare dunque tranquilli: visto che sarebbe cosa utile e necessaria, stiamo pur certi che il Consiglio Nazionale Forense censurerà la questione ed impedirà agli avvocati di occuparsene.
Quanto alla seconda domanda, quella connessa alla necessità di una norma ad hoc che preveda dimissioni da incarichi all’interno delle istituzioni forensi, allorquando si voglia essere “partigiani” politici, essa è un falso problema, che deriva dal fatto che nessuno si ponga la prima domanda in modo corretto. Infatti, nel caso che l’art. 69 n. 1 debba trovare applicazione per la politica, come è normale che sia, appare evidente che le dimissioni, collegate ad una candidatura partigiana, dovrebbero discendere dalla necessità per l’avvocato candidato di non violare una norma già vigente e munita di specifica sanzione.
La politica dunque, può essere esclusa dal novero delle attività che qualificano chi le pratica come “parziale”, agli occhi dei colleghi? A mio parere ci si pone un problema che ha il solo fine di consentire una prassi ingiustificabile. La risposta dovrebbe essere scontata. A nessun avvocato, che voglia essere ed apparire imparziale, dovrebbe essere consentito di cumulare cariche nelle istituzioni forensi con una evidente attività politico partitica. Ciò al fine di non violare il Codice Deontologico Forense ed incorrere nella censura, prevista dalle norme vigenti come sanzione atta a punire la parzialità dell’avvocato che presta servizio nelle nostre istituzioni.
Avv. Salvatore Lucignano