Tutti amici, tutti uguali, tutti avvocati. Nel giro di due giorni mi sono imbattuto già quattro o cinque volte nel terrore dello scontro politico interno all’avvocatura, manifestato addirittura da parte di esponenti di Nuova Avvocatura Democratica. La deontologia de noandri ha prodotto questo: l’annullamento dello scontro, la normalizzazione del dissenso, un unanimismo di facciata, che ha fatto coincidere, per anni ed anni, il potere con il bene ed il dissenso dal potere con il male. E’ il cortocircuito in cui si dibatte la nostra categoria ed è alimentato da formalismi e tabù così radicati nella formazione dell’avvocato votante, da garantire un vantaggio quasi incolmabile dell’istituzionalizzazione, sulla libera formazione del pensiero politico avverso.
Il codice deontologico forense parla chiaro: alle istituzioni forensi l’iscritto deve lealtà, rispetto, obbedienza, ma quanti avvocati hanno mai preteso che il Codice si conformasse ad una logica umanistica, che superasse la visione hegeliana del rapporto tra individuo e Stato, che imponesse alle istituzioni quegli stessi obblighi, nei confronti degli avvocati iscritti all’Ordine? Quanti sono gli avvocati italiani che, in questi ultimi anni, pur attraversati da movimenti di lotta e di ribellione nei confronti del regime dell’istituzionalizzazione forense, hanno seriamente pensato ad una codificazione, anche sul piano deontologico, degli obblighi delle istituzioni forensi nei confronti degli iscritti? Il nostro codice parla di ciò che gli avvocati devono alle istituzioni, o del modo in cui gli avvocati dovrebbero stare all’interno delle istituzioni, ma cosa accade quando sono le istituzioni a tradire gli avvocati? Quando li derubano, li vessano, li umiliano? Nulla, non accade nulla.
Quando il povero sventurato osa rivoltarsi contro istituzioni matrigne, cala sul tappeto la scure dell’unanimismo. “Siamo tutti avvocati, siamo tutti amici, dobbiamo tutti remare nella stessa direzione”. Ecco che il rifiuto dell’unanimismo, da legittima manifestazione del dissenso, nei confronti di fatti, atteggiamenti e conseguenze specifiche, derivanti da azioni e circostanze messe in atto dalle istituzioni forensi e da chi vi siede all’interno, viene trasformato in un atto di illegittima insubordinazione. La lesa maestà nei confronti di organismi che non possono essere criticati, né combattuti, che per definizione non sbagliano mai, o che se sbagliano possono autoassolversi dagli errori, imponendosi da soli ridicole penitenze, è il sostrato che porta gli avvocati istituzionalizzati a combattere ferocemente contro chi combatte l’istituzionalizzazione forense.
E’ una concezione figlia di una pochezza culturale che affonda le proprie radici in una formazione che, per la stragrande maggioranza degli avvocati italiani, è imbevuta di logiche di sudditanza. Le istituzioni forensi, un tempo onorifiche, prima che fossero assaltate da ogni sorta di manigoldi, avventurieri e politicanti, consentivano di impostare un rapporto di sudditanza psicologica con i propri rappresentati. Il Presidente dell’Ordine circondariale, fino a 15 o 20 anni fa, era per gli iscritti una figura dotata di un prestigio quasi indiscutibile. Era la carica stessa che rivestiva a renderlo superiore agli altri, a conferirgli onore e ad incutere nei suoi colleghi un naturale sentimento di deferenza. Tutto questo, con la politicizzazione delle istituzioni forensi, non solo è terminato, nei fatti, ma dovrà presto terminare, anche in diritto.
Nell’avvocatura massificata dei nostri giorni non esiste più alcuna ragione per nutrire deferenza verso le istituzioni forensi. I meccanismi che portano i nostri colleghi a ricoprire incarichi all’interno delle istituzioni nostrane sono totalmente slegati dal valore morale degli eletti. Nei rappresentanti non vi è alcuna superiorità culturale, non vi sono cursus particolari da superare, per assurgere a quelle cariche. Tutto questo non incarna una scenografia arbitraria, non deriva dall’atteggiamento irriverente e rivoltoso di qualche avvocato iscritto a NAD, ma dalla scelta, scellerata, di immergere le istituzioni forensi all’interno della politica, di renderle funzionali a scopi di parte, sia di carattere personalistico che legati a piccole bande. Nel momento in cui le istituzioni forensi si sono spogliate (seppure solo formalmente e solo in primo grado) del ruolo di giudici terzi ed imparziali del comportamento degli avvocati, nel momento stesso in cui sono divenute elemento di coercizione e di controllo del voto di decine di migliaia di avvocati, il fattore che ne consentiva l’autorevolezza è scomparso, lasciando il campo ad una forma di timore che non è più spontanea deferenza, ma paura di ritorsioni, legate al potere e al suo possibile utilizzo politicizzato nei confronti dei dissenzienti.
Ecco dunque che il povero avvocato si trova di fronte ad un Moloch difficilissimo da contrastare. E’ subordinato e timoroso, per deferenza, per tradizione, per clima, nei confronti di chi dovrebbe essere autorevole e migliore di lui. E’ isolato ed osteggiato quando prova ad uscire da questo schema ideale, quando il suo sentire ambisce alla libertà ed al confronto paritario con il potere istituzionalizzato, perché la gran parte dei suoi simili lo accusa di minare un’unità che viene indicata come postulato, piuttosto che essere pensata come l’effetto a posteriori di una aspra dialettica di scontro. Ciò rende estremamente difficile la rivendicazione della propria diversità.
In ogni test psicologico, la predisposizione di una condizione di estrema minorità comporta il rischio di cedimenti e di comportamenti che tendano a conformarsi a quelli della massa. Il fastidio, il disagio, la paura dell’isolamento, sono reazioni umane, comprensibili, che la Cosa Nostra Forense istituzionalizzata ha sempre coltivato, con studiata meticolosità. Qualcuno ha scritto che nella banalità del male può esservi un ordine, che lo faccia apparire addirittura innocuo. Anche questi sono meccanismi della psiche umana che vanno indagati, padroneggiati, per poter essere vissuti in libertà, senza condizionamenti volti a limitare l’agire libero dell’individuo. Ciò che appare ordinato, rispondente ad un ordine precostituito, è di per sé ambito dall’uomo. Il caos, l’insubordinazione, la rivolta, vengono rifuggiti da chi, nella stabilità delle istituzioni, cerca un rifugio contro la propria incapacità di essere libero.
L’avvocato italiano medio ha il terrore della propria libertà politica. Egli preferisce di gran lunga appiattirsi al sentire dominante, piuttosto che accettare di liberarsi dalla schiavitù dell’istituzionalizzazione. Un istinto di sopravvivenza forgiato nella mollezza e nel rifiuto della battaglia fanno il resto. L’avvocato è educato a stare zitto, a stare buono, ad avere speranza, ad ossequiare le spalline e i cordoncini dorati, a muoversi senza dare fastidio e a ricercare nei suoi simili un rafforzamento ancestrale ed acritico della propria debolezza. Tutto ciò non cambierà, se non avremo la forza e la lucidità per liberare la nostra coscienza, pensando in modo diverso, cominciando a costruire gli strumenti e le forme della mente che ci permettano di evadere da questa schiavitù strisciante.
NAD è tutto questo. NAD è distruzione dei preconcetti che ci limitano e che ci hanno posto in condizione di sottomissione rispetto all’istituzionalizzazione forense. Ecco perché facciamo paura, più ai servi che ai loro padroni. Ecco perché siamo odiati in modo viscerale dagli schiavi dell’istituzionalizzazione forense, perché poniamo di fronte ai loro occhi la possibilità di ribellarsi, di affrontare il mare aperto dell’indipendenza e non c’è nulla che uno schiavo, che vuole essere schiavo, odi e combatta, più di colui che voglia spingerlo ad essere libero.
Penitenziagite. Downshifting is the way.
Avv. Salvatore Lucignano