In questi giorni mi accingo a depositare memorie a seguito di esposti disciplinari mossi a mio carico ed esposti disciplinari contro avvocati che utilizzano i social network e le istituzioni forensi per campagne diffamatorie. Detti avvocati infatti, utilizzano l’esposto disciplinare come strumento di ricatto nei confronti di avversari politici, da eliminare mediante sanzione disciplinare.
Quando ho cominciato a fare politica forense, intraprendendo una vera e propria guerra contro le istituzioni forensi italiane, ho messo da subito in conto di essere radiato dall’Ordine degli avvocati. I miei atti di “insubordinazione”, contestazione, dileggio, violazione volontaria di decine di norme deontologiche, sono stati talmente plateali, irriverenti, reiterati, da non lasciarmi mai presagire un esito diverso dalla radiazione. Ho ritenuto giusto combattere una battaglia che portasse alla mia esclusione da questa avvocatura, perché in essa e nelle sue regole ipocrite io non mi riconosco. Oggi essere avvocati in Italia, se si intende contribuire ad un cambiamento in meglio della professione forense, è quasi impossibile. Il sistema ordinistico è talmente corrotto, le posizioni di potere sono talmente stratificate, da rendere ogni tentativo di cambiamento una fatica improba. Gli strumenti democratici, l’acquisizione del consenso, scontano processi di rinnovamento elettorale che si muovono con periodicità biennale o quadriennale e che consentono, a chi ha acquisito vantaggi, risalenti nel tempo, per mezzo dell’esercizio abusivo e personalistico del potere, di affrontare le elezioni che si tengono all’interno dell’Ordine Forense con la ragionevole certezza di poterla comunque fare franca.
In uno scenario così deteriorato, il codice deontologico vigente all’interno dell’avvocatura italiana è una specie di parodia. Grida manzoniane, una serie di terribili provvedimenti, atti a colpire senza pietà la più piccola violazione del decoro, un’attenzione antistorica e per certi versi maniacale alla vita privata, alla sfera politica dell’individuo avvocato, ma la totale incapacità di fare giustizia. Ladri, farabutti, debitori insolventi, imbroglioni, millantatori e traffichini, continuano tranquillamente a fregiarsi del titolo di avvocato, senza che nessuno, men che meno la deontologia, osi torcergli un solo capello. Dall’altro lato, persone perbene costrette a temere una sanzione disciplinare superiore all’avvertimento, capace di impedire ogni forma di competizione interna alla categoria, sul piano politico, e foriera di nefasti effetti sulla vita professionale e familiare del malcapitato.
In questi anni di dura battaglia ho vissuto intorno a me il terrore dei procedimenti disciplinari, da parte di colleghi impauriti, ridotti al silenzio ed allo stesso tempo ho toccato con mano l’assoluta alea che tocca qualsiasi avvocato che abbia a che fare con la deontologia forense. La propaganda elettorale, tanto per fare un esempio pratico, vietata ai seggi, è costantemente praticata. Sempre per far capire cosa abbia significato per l’avvocatura italiana la nascita di NAD, i colleghi napoletani ricorderanno le polemiche legate al trasformarsi dei luoghi elettorali in un tappeto di santini di carta straccia, che offriva uno spettacolo desolante ed indecoroso della nostra classe. Negli scorsi anni NAD ha denunciato con forza i colleghi appesi alle transenne, con il santino in mano, che fermavano chiunque si recasse al voto. Abbiamo lottato perché l’atteggiamento ai seggi fosse dignitoso. Certo, a Napoli, dove NAD è più radicata, ancora assistiamo, ad ogni elezione forense, alla presa d’assalto della porta, da parte di avvocati avvoltoi, pronti a braccare qualsiasi collega si rechi a votare. Certo, i bigliettini si continuano a dare, perché il malcostume è difficile da sradicare e la mentalità clientelare degli avvocati italiani è difficile da cambiare, ma grazie a NAD, grazie alle nostre proteste, negli ultimi due appuntamenti elettorali svoltisi a Napoli (elezioni COA 2017, elezioni CPO 2018), i comportamenti lesivi del codice deontologico, pur continuando a sussistere, a centinaia, si sono molto ridotti.
Consigliere Sorge, il primo dubbio che mi assale è di chiedergli: Consigliere Sorge, tu
e gli altri Consiglieri che hanno sottoscritto siete preoccupati del fatto che il
Consigliere Scarpa possa essere telecomandato da qualcuno? Ti chiedevo, perché
uno può interpretare male. Sono delle preoccupazioni legittime le tue anche se molto
starne. Comunque ti posso tranquillamente rasserenare che nessuno, né (omissis),
né altre persone possano telecomandare il Consigliere Scarpa o indicarmi la linea o
le cose da fare nell’interesse degli Avvocati, anche perché quando si entra in
Consiglio si rappresentano tutti gli Avvocati e non una fazione. Dovresti rammentarlo,
prima di parlare. A dimostrazione ed a riscontro di quello che ti dico, poiché sei molto
attento nel ricercare atti e documenti, tralasciando quelli che probabilmente non ti
fanno comodo, mi dispiace che tu non abbia avuto il tempo di rinvenire un verbale
del luglio 2017 dove, e qualche Consigliere oggi presente, ma anche il Consigliere
Rossi ti avrebbe potuto dare indicazioni in tal senso, la proposta di avviare un
procedimento da parte del Consigliere Serrapede, in questo Consiglio in relazione
ad un’altra serie di post di questo genere, fui proprio io che proposi di querelare
l’Avvocato (omissis) e devo dire che l’unico che appoggiò questa proposta fu l’attuale
Consigliere Segretario, l’Avvocato Vincenzo Pecorella e forse solo qualcun altro.
Ebbene, caro Consigliere Sorge, non ci crederai, ma la nostra proposta non fu
approvata. Informati meglio. Questo penso possa già essere indicativo della linea di
condotta che questo Consigliere tiene all’interno dell’Istituzione in cui siede. Quanto
ai commenti sui social, non rinnego nulla di quello che ho scritto, perché da
Consigliere cercavo solo di trarre uno spunto rispetto alla problematica del rispetto
della deontologia, che questo si che è un problema politico.
E’ un problema quello dell’articolo 2 del Codice deontologico, che tu hai richiamato,
laddove c’è scritto di tenere un comportamento conforme al codice anche nella vita
privata. Questo è un discorso che non possiamo non affrontare mettendo la testa
nella sabbia come è accaduto in precedenza. La provocazione rivolta all’Avvocato
(omissis), che aveva partecipato a questo dialogo, dico: “Perdonami, ma anche
quando si hanno condotte non probe nella vita privata dovrebbero essere oggetto di
disciplina” visto che qualche Avvocato anziano mi parlava che nei tempi andati,
addirittura veniva segnalato l’Avvocato che aveva debiti con i rivenditori di libri: qui ci
sono soggetti che nemmeno pagano le istituzioni e sono debitori ma non si fa nulla.
Credo che tu possa darmi atto di questo. L’ Avvocato non può avere debiti! Di
nessun tipo. A maggior ragione quelli impegnati ad insegnare il decoro agli altri, sia
nella vita politica che istituzionale. Quindi, dovremmo pensare bene a ciò che
diciamo degli altri. Mi rendo conto che stiamo andando verso una politicizzazione
anche del Consiglio dell’Ordine ed allora torniamo al discorso: il Consiglio dell’Ordine
fa la politica o fa l’istituzione? Fu la prima cosa che dissi nel mio discorso quando
sono entrato in Consiglio, perché ritengo che se la contesa è politica avere uno
strumento, quello della deontologia, in mano al vertice politico, cioè il CNF, diventa
un’arma anche per poter zittire. Questo è un problema politico e nessuno può
nascondersi dietro ad un dito. Quando il Presidente mi ha informato di questa
vicenda ed ha chiesto sia a me, che al Consigliere Segretario, cosa fare, noi non
abbiamo avuto la minima esitazione nel condividere la determinazione di inviare
immediatamente gli atti alla disciplina. Questo è un dato certo, caro Consigliere
Sorge. Rammentalo bene, perché quando qualcosa potrebbe riguardare altri, non
vorrei che tu e chi ha condiviso ciò che hai detto, abbiano una minima titubanza. Ti
dico che appena mi è stato segnalato l’episodio, senza nemmeno batter ciglio,
abbiamo inviato gli atti alla disciplina, cosa che viceversa non vidi nell’episodio che
ha raccontato il Presidente, quando uno dei contendenti della discussione di cui
stiamo parlando, nella assemblea degli iscritti del 4 luglio da seduto disse delle
parole pesantissime contro il Consiglio dell’Ordine; gli atti non vennero inviati alla
disciplina. Ciò per dirti che nulla è scontato! E se stavolta siamo stati tempestivi, va
riconosciuto. Nel rispetto dei colleghi iscritti non ho mai parteggiato per qualcuno,
mai! Quelli che sono i compiti istituzionali, li ho sempre portati a compimento. Ti
sembrerà strano ma che l’Avvocato (omissis) abbia dei contatti attualmente politici
con vertici istituzionali è un dato risaputo da tutti, è stato ad esempio anche ricevuto
ed ha discusso di politica con il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Roma, l’Avvocato Mauro Vaglio, che forse a differenza tua ritiene l’Avvocato
(omissis) come tanti altri, un soggetto con cui interloquire di politica! L’Avvocato
(omissis) ha pure interloquito con il Presidente di Cassa Forense. Di cosa ti
sorprendi? Converrai con me che non sono un garantista a corrente alternata.
Quando ci sono dei fatti, da penalista sono un garantista sempre e, quindi, ritengo
che anche in questo caso gli atteggiamenti vanno stigmatizzati sicuramente e puniti
se provati, ma questo spetta al Consiglio di Disciplina, quindi non ho timore e né
imbarazzo di genere rispetto a quello che è stato riferito in quest’aula e di quello che
vedo quotidianamente sui social. Ritornando al concetto di vita privata mi pongo
anche altri problemi, come mai nulla è stato obbiettato quando una iscritta a questo
Ordine, su una foto che ritraeva il Presidente del Consiglio dell’Ordine, su una pagina
di un altro Consigliere dell’Ordine, definiva quei visi “facce di cacca”! Non lo avete
notato? Questo è un fatto che non mi pare tu e gli altri abbiano affatto stigmatizzato!
Come mai? La verità è che né il Consigliere Scarpa, né l’ufficio di presidenza tende
ad alimentare ma semmai ad indirizzare verso l’unico giudice oggi competente che è
il CCD. Caro Consigliere Sorge, non intendevo certamente tacere alcuna notizia, ma
tu ritieni che laddove ci sia una situazione di disdoro sia opportuno moltiplicare e
riprodurre su ogni pagina l’offesa, ovvero agire nelle opportune sedi? Di questa foto
di cui parlavo dove c’era scritto “Vedo in questa foto solo facce di cacca” in una
pagina di un Consigliere che siede in questo Consiglio, io, piuttosto che far
rimbalzare la notizia, etc., ho chiesto l’immediata cancellazione. L’unica cosa, e
questo l’ho ripetuto sempre nei precedenti Consigli, lo ripeto anche oggi, tanto si
verificherà anche in seguito, laddove riportiamo conversazioni dei social, bene
sarebbe riportare l’intera conversazione dei soggetti partecipanti, perché in quei post
di (omissis)ci sono anche dei like di Presidenti degli Ordini di altre parti di Italia. La
questione generale sulla deontologia è invece interessante se posta con le giuste
modalità e toni. Ma non basterebbe un solo Consiglio e dovremmo coinvolgere
anche i Consigli distrettuali di disciplina. Sarebbe l’occasione per un convegno
veramente franco sull’argomento della deontologia, relatore sarà chi meriterà di
essere relatore e non impaludato rispetto a concetti che vanno rivisti, alla luce
dell’evoluzione che stanno avendo i mezzi di comunicazione. Laddove riteniamo che
l’art. 2 vada confermato nel concetto della vita privata, allora ritengo che
trasmetteremo da qui a breve al Consiglio Distrettuale di disciplina almeno 11 mila
esposti nei confronti degli Avvocati.
In questo scenario desolante la mia attività politica è giunta ormai ad un punto critico. Cominciata nel 2014, con le denunce del regime dell’istituzionalizzazione forense, a partire dal settembre del 2016, con la costituzione di NAD, ha trovato una manifestazione plurale. Oggi, in un’associazione che conta centinaia di avvocati iscritti e riscuote il consenso di centinaia di colleghi, il mio lavoro, il mio ruolo, devono trovare necessariamente una diversa forma di espressione. Mi appresto a vivere con assoluta serenità le conseguenze richieste ed invocate delle mie violazioni del codice deontologico. L’assenza e l’autodenuncia in materia di crediti formativi, l’utilizzo del dileggio, del turpiloquio, come strumenti di denuncia e contrapposizione politica, una tendenza, mai negata, al paradosso, all’iperbole, al disprezzo manifesto per la tranquilla oscenità dell’Ordine costituito. Non sono queste le vicende che attirano il mio interesse politico. Ho sempre considerato la mia presenza, all’interno dell’avvocatura italiana, come un elemento transitorio e di fatto assolutamente non necessario, persino quando ho declamato in pubblico la mia indispensabilità ai fini della riuscita di un cambiamento.
I fattori che oggi tengono schiacciata la classe forense in un regime di parossistica irriformabilità sono altri. In una delle sue ultime interviste, l’avvocato Maurizio De Tilla, osannato nelle ore successive alla sua morte, ma già obliato dall’ignoranza al potere, si soffermava sulla distanza dal corpus civile e politico della classe di due tipologie di avvocato: il morto di fame, il sopravvivente, dedito ad ogni sorta di compromesso, volto a consentirgli di guadagnare denaro, ed il professionista della grande impresa, il capitalista del diritto. Due categorie che, a detta di De Tilla, astraendosi dai principi della ricerca di valori e dalla difesa dei diritti, non potevano aggregarsi ai processi decisionali riguardanti la classe, in modo proficuo per la stessa. Ciò che mancava al ragionamento di Maurizio, in termini di visione strategica, era la tremenda concretezza del potere e la tragica forza del reale, rispetto all’ideale. Parafangari, consorterie, intrallazzieri, istituzionalizzati, sono tutti “un voto”, esattamente quanto i guerrieri, gli idealisti, i combattenti, gli esteti dell’inclusione democratica. La definizione dei processi di allocazione del potere, all’interno dell’avvocatura italiana degli ultimi lustri, comporterebbe una razionale rivalutazione del potere del male. Il clientelismo, il voto amicale e relazionale, l’assenza di cultura politica, la denigrazione stessa del concetto di “politica forense”, il qualunquismo, dominano la scena. C’è una enorme fetta di classe forense che vede la politica come un fast food dell’interesse di prima necessità, mentre una grande parte di avvocati si venderebbero a qualsiasi forma di degenerazione, pur di giocare un ruolo negli assetti decisionali e trarne utilità personali.
In questo mare di contraddizioni, in cui il male vota e anche del male occorre acquisire il consenso, pensare che una forza di cambiamento radicale possa esprimersi, in tempi brevi, con speranze di successo, senza accedere all’area logica ed etica del compromesso, appare davvero utopistico.
Io non ho mai compiuto questo errore. Non mi sono mai rifiutato di sentirmi un intellettuale prestato alla politica forense. Non nascondo di aver studiato e non disdegno di mostrare la mia indipendenza dalla fatica quotidiana, perché riconosco alla libertà di fare e non fare un valore enorme, anche per un avvocato che voglia dirsi tale. La trasformazione in cottimisti del diritto, sia ad alto che a basso budget, è stata una delle vittorie del regime dell’istituzionalizzazione forense. Gli avvocati sono diventati lavoratori, nel senso deteriore del termine, in un’epoca in cui la distanza tra lavoro, impegno e reddito, assume dimensioni sempre più preoccupanti, contribuendo ad erodere quel poco di coesione sociale che i principi fondativi della nostra Repubblica avevano tentato di impiantare nella cultura sociale del popolo italiano.
La mia vicenda personale dunque, così intrisa di radicalismo e provocazione, non può essere pensata come un impulso da cui attendersi un eco necessario. Alla fine di un periodo di lotta, il potere e l’Ordine hanno sempre gli strumenti per porre fine alla vicenda personale di un folle. L’unica salvezza per il pazzo è che la politica assuma per vero il suo parlato, ma ciò comporta un grado di maturità e di moralità che gli avvocati italiani non posseggono. Qualcuno un tempo scrisse “sono nato postumo”. Io non credo che il rapporto tra il proprio io e la storia debba essere improntato alle categorie del martirio o della beatificazione. Penso piuttosto che l’agire individuale di ognuno, pur muovendosi all’interno di schemi che possono tutti e sempre ricondursi all’egoismo, possa talvolta incontrare il favore di una collettività e sfociare in agire di utilità sociale.
I messaggi di libertà che ho dato agli avvocati italiani sono molti e certo nei prossimi anni, quando gli effetti di certe premesse giungeranno a compimento, si potrà comprendere meglio che le denunce, la visione di una professione forense che muta radicalmente il suo DNA, il necessario riappropriarsi di uno spirito da giureconsulti, non erano divagazioni onanistiche, o peggio, sintomi di una sindrome ossessiva e compulsiva, bensì un tentativo di portare una classe verso approdi più confacenti alle necessità dei tempi che verranno.
La mia familiarità con il concetto di espulsione dal sistema, in questo scenario, mi ha consentito di astrarmi dall’ordinario. Ho potuto dire cose che nessun altro poteva dire, proprio perché, in cima a quel muro, una volta denudato, scoperto, non protetto, nemmeno da una volontà di autoconservazione, ero in grado di vedere e di puntare a ciò che le barriere, della mente e del decoro, impediscono di giungere.
La mia voglia di rivoluzione si è manifestata con la parola. Non con una parola manomessa, corrotta, contraffatta, bensì con una parola che ha toccato tutte le corde possibili dell’animo umano, provando con insistenza e con dedizione a scuotere le coscienze sopite di una categoria abbrutita dalla ritualità del quotidiano. Non so quanto sia bastato. Certo, abbiamo fatto molto, stiamo tentando una strada, proviamo a dare una coscienza plurale a soggettività rinchiuse troppo spesso in gabbie affumicate, ma non tutti i semi sono destinati a germogliare ed i tempi, i modi della fioritura, spesso sfuggono a qualsiasi tentativo di programmazione. E’ la scienza dei casi umani e delle umane volontà, che dà sole e nutrimento a seconda dei capricci del vento e delle stagioni.
Cosa resterà, tra molti anni, di questa eresia? Difficile dirlo. Probabilmente, seguendo il consiglio di un amico, è giunto il tempo di una ristrutturazione delle parole, di un nuovo metodo di silenzio, che consenta di valutare nell’assenza, il valore di una presenza, spesso bulimica, opprimente, urticante. Avverto da tempo il bisogno di abbandonare la dimensione dialogica dell’essere politico, per concentrarmi sullo studio, sulla lettura, sulla codificazione e sul pensiero di nuove categorie dell’agire e del pensiero. Rivangare incessantemente un campo, smuovendo di continuo la terra che copre il seme, non fa che lasciarlo più scoperto e fragile.
Ecco perché sento il bisogno di ritirarmi in un ruolo che non sia più quello dell’esposto. Per anni ho cercato di diffondere all’interno dell’avvocatura italiana il bisogno della pluralità, ma di fatto, operando come supplente, ho impedito che molti si rendessero protagonisti di un’azione autonoma, contribuendo a vanificare parte del mio esempio. Non si devono mai concedere alibi, quando si praticano le rivoluzioni. Ecco perché ormai posso dare seguito a quel progetto di sparizione che ho sempre coltivato, pur non essendo mai creduto. Perché infine, è proprio questa la verità più divertente di questa bizzarra vicenda: io sono uno che dice sempre la verità, anche quando dice le bugie, ma che difficilmente viene creduto.
Penitenziagite. Downshifting is the way.
Avv. Salvatore Lucignano