Lo spunto per questo articolo mi è stato fornito dalla lettura di un’inchiesta, pubblicata dal settimanale “L’Espresso”, che individua gli italiani come il secondo popolo in Europa, preceduto solo da quello turco, per diffusione dell’analfabetismo funzionale. (Di seguito il link dell’articolo).
Le riflessioni possibili sull’invasività del fenomeno, si legano ad altri concetti che NAD ha già presentato ed analizzato, primo tra tutti la “bulimia cazzoide”. E’ infatti innegabile che più la realtà da possedere e decodificare sia vasta, incontenibile nei processi dell’analisi e dell’agire, più è facile che il soggetto “low skilled” la abbandoni. E’ un dramma che tocca anche la nostra professione ed è ormai un elemento che NAD non può sottovalutare.
Esiste un numero enorme di colleghi che esercita attraverso la reiterazione di schemi semplici, in ambiti limitati, affidandosi ad un passaparola ben visibile, anche sui social network. Si sta diffondendo una nuova figura di professionista, che agisce “per sentito dire” o “su consiglio”, perché è di fatto incapace di costruire un proprio sapere, personale ed autonomo. La bulimia del corpus normativo, l’irrilevanza delle capacità per l’esito delle vertenze giudiziali, l’assenza di meccanismi premianti per il merito e per il pensiero giuridico di qualità, stanno letteralmente distruggendo il valore dell’avvocatura.
Mi sono spesso occupato dell’intima relazione tra valore e valori. In questo caso, l’analfabetismo funzionale diffuso tra noi avvocati, ci toglie sia valori che valore e tende all’unificazione della perdita. L’avvocato che non sa “pensare” e fare diritto in modo autonomo, è sicuramente un professionista che non potrà sostenere con forza dei valori forti. Allo stesso tempo, se questa tipologia di azione diventa lo standard operativo medio, non possiamo meravigliarci che le prestazioni degli avvocati non intercettino valore.
Nelle istituzioni forensi italiane non si ha la minima idea della gravità del problema.
O noi siamo in grado di ricostruire un modo di fare l’avvocato che ridia valore e valori a chi fa l’avvocato, o l’avvocatura morirà, evaporerà, uccisa dall’inedia, dalla fame, da una pletora di operatori di azioni a bassissimo valore aggiunto.
Questo è un problema enorme dell’avvocatura contemporanea. Occorre immediatamente riscrivere la legge professionale, ripensare un’avvocatura che torni ad essere elite intellettuale ed operativa, impedire che i meccanismi di squalificazione valoriale della prestazione legale diventino l’humus che consente il depauperamento delle nostre attività.
Servirebbe una task force, un comitato operativo, fatto di colleghi con capacità straordinarie. Appunto…servirebbe.
I processi di accumulo e scambio di valore sono stati per molti anni alla base dell’espansione dell’avvocatura di massa. Oggi tali processi non trovano più il carburante per generare prestazioni capaci di incorporare valore. Ciò sta portando all’estinzione dell’avvocatura di massa.
La perdita di valore del lavoro, di qualsiasi lavoro, in favore di meccanismi di allocazione della ricchezza che privilegiano la rendita, il potere o un sapere assai ristretto, è un fenomeno connaturato all’avvento della saturazione della società di massa. Non è possibile ignorare che la curva di espansione orizzontale dell’inclusione sociale stia vivendo oggi una parabola discendente che appare difficilmente reversibile. Nonostante l’esplosione dell’istruzione superiore, la concreta capacità di rapportarsi alla complessità del reale sembra appartenenere ad una cerchia di individui sempre più circoscritta, mentre avanza un soggetto in possesso di titoli di istruzione nominalmente “superiori”, ma che di fatto non consegnano a chi li ha conseguiti alcuna professionalità o sapere spendibile.
La rivalutazione del sapere e del suo valore aggiunto, sia in ambito economico che sociale, deve passare da un necessario ripensamento del valore dei titoli, della loro capacità di incorporare una serie di caratteristiche capaci di offrire affidamento nell’individuo che si rivolge al professionista titolato, ed allo stesso tempo, devono offrire al professionista una possibilità di collocazione del proprio sapere, incorporato nel titolo, che non lo porti all’esclusione economica e sociale.
Il processo di semplificazione della conoscenza, dato sia dalla bulimia cazzoide in cui è immerso l’uomo medio contemporaneo, sia dall’incapacità dei corpi intermedi di difendere la spendibilità delle proprie conoscenze, porta ad un appiattimento, ad un livellamento delle differenze tra chi sa e chi non sa, che finisce con il rendere il sapiente un inutile intermediario. Si vanno formando, a ritmi non governati, né sostenibili, nuovi centri di intermediazione, spersonalizzati, deresponsabilizzati e fuori da qualsiasi logica di scambio di valore, che stanno progressivamente inaridendo la fonte del bisogno e del corrispondente servizio. In questo senso, parlare di economia on demand appare grottesco. L’analfabetismo funzionale diffuso sta piuttosto diventando una forma di negazione dell’economia, costruendo un regno di melassa sociale in cui non occorre sapere, tutti pensano di sapere, nessuno si rivolge a chi realmente sa.
A volte questi discorsi generano in chi li valuta l’errata percezione di un pessimismo cosmico di fondo, che allontana dall’adesione alle conclusioni dettate dalle premesse. E’ un grave errore di prospettiva. Il governo dei fatti umani e tecnici non è una questione da relegare nell’ambito del poco “cool”. La supina accettazione delle evoluzioni sociali e tecniche non è indice di un pensiero “smart”. Il compito di un giurista e dunque a maggior ragione dell’avvocatura, sarebbe quello di affiancare ai processi endogeni rispetto alla sfera giuridica, l’esperienza e la guida, filosofica, politica e giuridica, che il diritto e l’esperienza secolare dei diritti, maturata in ambito europeo, possono offrire al cambiamento futuro. Rinunciare a giocare questa partita, fare da spettatori, non solo non porterà vantaggi agli avvocati italiani, ma li esporrà sicuramente ad una serie di effetti nefasti sull’equilibrio del sistema delle prestazioni legali. Gli esiti di questo tsunami sono già in atto, l’overbooking legale è una realtà innegabile, che nemmeno la retorica populista, tesa a minimizzare il dramma di un numero di avvocati abnorme, che in Italia sta cannibalizzando i più deboli, riesce ormai a contrastare.
Bulimia, sovrannumero, analfabetismo funzionale, semplificazione dei processi operativi e conseguente perdita di valore aggiunto, rappresentano una spirale tendente all’autoconsunzione che l’avvocatura italiana non sta facendo assolutamente niente per invertire. Al contrario, tutti i processi di impoverimento della categoria sono avallati dalle istituzioni forensi apicali, che non riescono, né probabilmente vogliono, attrarre valore diffuso, preferendo concentrarsi su strategie di sopravvivenza individuali. Questa politica, miope e sciagurata, sta già presentando un conto salatissimo al benessere dei colleghi, ma nei prossimi anni mostrerà il suo volto più crudele. Purtroppo non sembra che si voglia agire per impedirlo.
Lo studio del presente articolo darà diritto a 3 crediti formativi in materia obbligatoria.
Avv. Salvatore Lucignano