Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’ntervento dell’Avv. Vincenzo Pecorella, Consigliere dell’Ordine di Napoli, alla tavola rotonda organizzata da Rinascimento Forense a Napoli, in data 11 luglio 2017, sul tema “Obbligatorietà dei crediti formativi per i professionisti: formazione o formalità?”
Presentarsi agli Avvocati partenopei con un convegno con questo titolo e su un argomento certamente interessante ma forse un po’ noioso per chi deve ascoltarci in questa sala, in piena estate ed un caldo infernale, ha un preciso ed importante significato: questa nuova associazione, Rinascimento Forense, a cui vanno i miei complimenti ed un in bocca al lupo sincero ed affettuoso, si propone di ragionare con tutti di materie fondamentali a comprendere le ragioni della crisi della nostra professione.
Ed è una bella cosa in un panorama associazionistico molto diverso da quello in cui sono cresciuto.
Nell’introdurre un serio ragionamento sulla formazione e sugli obbiettivi che essa si proponeva quando è stata ideata, mi sembra opportuno iniziare la mia breve relazione con alcuni riferimenti agli ultimi rapporti Censis nei quali sono state evidenziate una serie di criticità del ceto forense, sia nei rapporti degli avvocati con la società, sia in relazione alle prospettive che essi hanno del futuro.
Futuro che appare incerto per non dire molto timoroso e non solo per i giovani avvocati.
Innanzitutto, per quasi tutti gli intervistati, gli oltre 250.000 avvocati presenti nel nostro paese nel 2017 rappresentano il primo problema; un numero sicuramente eccessivo, specie se raffrontato con la domanda di servizi legali espressa dalla società italiana.
La ragioni addotte per spiegare l’asserito sovradimensíonamento della categoria è piuttosto ampia, benché vi sia un tema ricorrente, quello della scarsa selezione praticata all’ingresso della professione.
In generale, le critiche si appuntano sui criteri adottati per gli esami da avvocato che sarebbero innanzitutto caratterizzati da una difformità nel metro di giudizio tra le diverse sedi di esame.
Ma oltre che nella fase esaminatoria, molti individuano profili critici anche nelle modalità di svolgimento del tirocinio, che mancherebbe di una verifica dell’effettività della pratica, lasciando spazio a prassi di “affiancamento” di tale attività, con altre forme di attività lavorativa o di preparazione per concorsi diversi.
In verità, quello dei «numeri eccessivi» sembra essere stato un tema da sempre scritto nel codice genetico dell’avvocatura.
Ad esempio nel volume « Libere professioni e fascismo », edito a cura di Gabriele Turi nel 1994, si legge che uno dei problemi più pressanti della professione era e rimase anche durante il periodo del ventennio quello dell’affollamento degli albi professionali, attestandosi ad un numero di oltre 2.000 negli Anni 20.
La laurea in legge rappresentava per la grande e media borghesia, soprattutto meridionale, un motivo di prestigio, anche se poi non tutti sceglievano la libera professione.
La congestione degli albi e la conseguente concorrenza professionale indusse, già all’epoca, la categoria a cercare di condizionare i canali di accesso alla professione con l’introduzione dell’esame di Stato.
Esami che nel tempo non hanno raggiunto l’obbiettivo per i quali erano stati istituiti, soprattutto dopo gli anni 80, allorquando la Presidenza delle commissioni venne rivendicata e poi assegnata agli Avvocati.
Antonio Leonardi con il quale ho avuto il piacere di lavorare per vari anni, già nell’agosto del 1993 lamentava «che gli avvocati italiani non avevano saputo difendere la funzione sociale ed il ruolo istituzionale a loro assegnato».
E, prova di questa inettitudine, era stata anche «l’incapacità di predisporre una formazione professionale rispondente alle mutate condizioni e l’acquiescenza ad un accesso sostanzialmente liberalizzato agli albi».
“Non si può pretendere il rispetto delle funzioni della difesa », osservava ancora Leonardi, «se si accetta una crescita geometrica nell’accesso alla professione, che frantuma ogni regola professionale e piega l’autonomia del difensore alle condizioni di un mercato professionale senza regole e senza principi; né si può richiedere attenzione per la dignità culturale dell’avvocato se si accetta che prevalga una crescente dequalificazione professionale.
In verità, alla fine degli anni 80, già si parlava di istituire scuole di formazione, tanto che il Consiglio nazionale forense, nel riconoscimento dell’importanza di iniziative di formazione degli Avvocati si faceva promotore di «una scuola di pensiero che preparasse il giurista all’impatto con un ordinamento asistemico, disordinato, sovrabbondante di norme.
Una scuola, insomma, che doveva divenire un luogo privilegiato di discussione tra teorici e pratici e palestra di esercizi costanti».
La necessità di dare sempre maggiore impulso e rilievo alle scuole di formazione professionale era poi ripresa dalla Federavvocati, oggi A.N.F., oltre che dalle Camere Penali e contenuta nel documento presentato dall’Aiga al Congresso di Roma, dedicato appunto alla formazione selettiva dei giovani professionisti, quale unica concreta alternativa alla inopinata chiusura degli albi.
Siamo negli anni 1990, anni che sono contraddistinti dalla scomparsa della distinzione tra avvocati e procuratori, con l’abolizione di quest’ultimo albo.
Ed è proprio di questi anni l’approvazione del codice deontologico al cui interno troviamo diversi richiami al dovere teorico di aggiornamento e formazione.
Una delle prime tracce di formalizzazione di una cultura della formazione permanente per gli avvocati è da ricercarsi proprio in questo periodo.
La materia, infatti, da allora, non ha mai avuto un’altra diversa regolamentazione fino all’entrata in vigore della legge 247/12, preceduta da alcuni correttivi e da un primo regolamento per la formazione, predisposto da Remo Danovi, oggi Presidente del Coa di Milano.
Alla fine degli anni 90’, si diceva, infatti, che se è certamente vero che la diligenza e la competenza attengono al modo di essere attuale dell’avvocato, il dovere di aggiornamento anticipava una prospettiva futura, per conservare ed accrescere la conoscenza, con particolare riferimento ai settori nei quali è svolta l’attività.
Ma da cosa nasce in Europa l’esigenza di una formazione permanente obbligatoria?
Uno studio sistematico di ciò che è accaduto negli altri paesi dimostra che la formazione permanente obbligatoria è una questione a cui quasi tutte le professioni si sono avvicinate nel tempo. Molte organizzazioni professionali (anche al di fuori dell’ambito forense) hanno, infatti, già introdotto obbligatoriamente un sistema di formazione permanente.
Si diceva che offrire un’alta qualità di servizi rappresentasse il solo modo in cui un avvocato può mantenere e rafforzare la sua posizione competitiva di fronte agli altri avvocati (inclusi i dipartimenti legali degli studi di commercialisti ed i grandi concentrati economici giuridici, organizzati in forma societaria).
In Italia, infatti, gli Avvocati hanno il monopolio del contenzioso, ma non della consulenza legale, della contrattualistica e così via.
Per di più, si affermava che avere contezza che ogni avvocato abbia l’obbligo di acquisire una formazione permanente prendendo parte a corsi di aggiornamento, avrebbe ispirato una maggiore fiducia nel cittadino.
I risvolti pubblicistici della funzione dell’Avvocato sarebbe stata soddisfatta e legata alla certezza per il cliente di poter confidare nella competenza del suo avvocato ed in una prestazione professionale di qualità.
Ancora, si affermava che la formazione permanente avrebbe avuto lo scopo di ridurre il numero delle cause inutili perché un avvocato competente avrebbe evitato di suggerire azioni giudiziarie infondate.
Vi è stato anche un altro fattore che ha pesato in favore della obbligatorietà della formazione permanente in Europa.
La posizione economica di molti dei piccoli studi legali che per sopravvivere in un clima di dura competizione, sono stati forzati ad estendere le loro competenze in campi diversi.
Ciò richiedeva una consulenza estesa ed una formazione diretta specificamente alla pianificazione societaria, alla direzione finanziaria, a marketing ed alla telematia.
Migliorando le attitudini manageriali dell’avvocato, il profitto del ceto forense sarebbe generalmente aumentato.
Fin qui le speranze e le esigenze della formazione.
In Italia, il belpaese del copia incolla, ha, quindi, tentato di copiare alcune esperienze straniere (in particolar modo, il modello olandese), come se l’Italia avesse una tradizione giuridica come quella dei Paesi Bassi.
Fu sufficiente la proposta di legge di estendere agli Avvocati la stipula dei contratti di compravendita nei limiti di valore di 100.000,00 euro e l’immediata alzata di scudi del potentato notarile, per giustificare la cancellazione della proposta almeno fino a quando anche gli Avvocati non si fossero dotati di un modello di formazione obbligatoria che elevando la loro qualità, li avrebbe resi destinatari di nuovi e più vasti mercati.
Tale necessità divenne l’occasione per il CNF di elaborare un regolamento sulla formazione obbligatoria che sostanzialmente riproduceva – come detto – quello olandese.
E fino alla legge del 2012, nonostante il CNF avesse formulato appunto una regolamentazione endoforense, era stato evidenziato (rammento tra gli altri anche un mio articolo sul Sole 24ore dal titolo significativo, “Avvocato, non ti formi? Ti sculaccio”) che, però, un’eventuale violazione di tale regolamentazione avrebbe, al più prodotto una sanzione deontologica, non trovando sia il regolamento adottato che lo stesso codice deontologico nessuna fonte in norme primarie, non potendo essere certamente considerata norma primaria il codice deontologico approvato dal CNF.
E senza una legge che prevedesse una regolamentazione della formazione obbligatoria, le regole adottate avevano scarsa incisività.
Poiché l’Avvocatura è un soggetto strano che ama farsi del male, siamo giunti, in pompa magna, alla nuova legge professionale che per migliorare i livelli e la qualità della professione legale ha introdotto l’obbligo di formazione obbligatorio, in verità, introducendo anche altre singolari “obbligatorietà”.
Ed infatti, dopo la nuova legge forense è cambiato tutto.
In peggio, a mio avviso.
Dal 3 febbraio 2013, infatti, è entrato in vigore uno schema di formazione legale permanente e in relazione ad esso per ogni avvocato è necessario acquistare, rectius “acquisire”, annualmente “crediti formativi” per una buona parte della sua carriera, laddove le modalità di attuazione in una forma organica e sistematica della formazione professionale avrebbero dovuto trovare una loro composizione in una regolamentazione organica che ottemperasse alla legge professionale ma non nelle forme di tante spade di Damocle pendenti sul capo di ogni singolo Avvocato a pena di cancellazione dall’albo.
La formazione di avvocato è, invece, diventata una formazione che dura quasi tutta la vita (eccetto per coloro che hanno 25 anni di iscrizione all’albo o 65 anni di età).
Il CNF nella seduta del 16 luglio 2014, visto l’art. 11 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 che pone a carico dell’avvocato l’obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali e di contribuire al migliore esercizio della professione nell’interesse dei clienti e dell’amministrazione della giustizia ha elaborato, pertanto, il regolamento attualmente in vigore, seppur con qualche modifica.
Esso sostanzialmente prevede:
1) la gestione e organizzazione dell’attività di aggiornamento a cura degli ordini territoriali, delle associazioni forensi e di terzi;
2) ai consigli dell’ordine sono affidati i compiti di promozione ed organizzazione di eventi formativi e di controllo della formazione continua degli avvocati;
3) al Consiglio nazionale forense è affidato il compito di promuovere attività di coordinamento e di indirizzo dei Consigli dell’Ordine, al fine di rendere omogenee le condizioni di esercizio della professione e di accesso alla stessa;
Sostanzialmente, l’avvocato e il tirocinante abilitato al patrocinio, figura quest’ultima che nella attuale legge professionale scompare completamente, hanno, quindi, l’obbligo di curare la competenza professionale e tale obbligo sussiste per il solo fatto dell’iscrizione all’Albo, agli Elenchi ed ai Registri, a prescindere dall’esercizio effettivo dell’attività professionale;
4) il periodo di valutazione dell’obbligo di formazione ha durata triennale e l’iscritto deve conseguire, nell’arco del triennio formativo, almeno n. 60 Crediti Formativi, di cui n. 9 Crediti Formativi nelle materie obbligatorie di ordinamento e previdenza forensi e deontologia ed etica professionale;
5) sono previste alcune esenzioni per gli avvocati, per i componenti di organi con funzioni legislative e i componenti del Parlamento europeo; per i docenti di ruolo ed i ricercatori confermati delle università in materie giuridiche;
6) ciascun COA, direttamente o tramite la Commissione locale eventualmente costituita, predispone con cadenza anticipata semestrale il Piano dell’offerta formativa (POF), indicando gli eventi che intende promuovere nel corso del semestre successivo;
7) tutti gli avvocati devono consegnare una dichiarazione ogni anno dalla quale risulta che essi hanno adempiuto ai requisiti del regolamento: i controlli a campione sono fatti annualmente.
Fin qui le regole.
Le mie Considerazioni conclusive.
Io credo che il sistema così congegnato sia irragionevolmente poco flessibile e inaccettabilmente troppo punitivo.
Invero, pur riconoscendo alcune modalità di formazione professionale diverse dalla frequentazione dei corsi, come le pubblicazioni, gli insegnamenti ed i master, lascia di fatto, ai singoli eventi formalmente accreditati dai COA territoriali, una insufficiente formazione di qualità e molto ma molto, io dico troppo presenzialismo di soggetti che hanno caratteristiche più vicine alla figura di eligendi che di formatori.
In genere, questo mondo è stato immediatamente territorio di conquista di nuove associazioni, pronte ad entrare prepotentemente nel campo della distribuzione della conoscenza con la sciabola in mano, per rilasciare crediti formativi in cambio di simpatie.
Ovvero, di società commerciali che a pagamento rilasciano qualsiasi cosa.
Sostanzialmente, un progetto formativo in cui la didattica ed i contenuti spesso latitano.
E con la domanda delle domande sempre pendente: chi forma i formatori?
Non sono, peraltro, personalmente convinto che rendere obbligatoria la formazione permanente abbia avuto un effetto benefico o almeno quello sperato e purtroppo quello che affermava Antonio Leonardi circa venti anni fa, può dirsi ancora oggi attuale.
La formazione per gli Avvocati si è trasformata da un grande progetto sociale e culturale per migliorare la qualità degli Avvocati ed indirizzarli, se essi lo desideravano, verso una specializzazione ed una conseguente migliore qualità della prestazione professionale, ad un misero coacervo di centinaia di eventi e convegni a vario titolo accreditati dai Coa sulla base di un mero controllo formale che i Coa pure osservano ed ai quali gli Avvocati sono costretti a partecipare per cumulare i crediti formativi necessari al completamento del triennio formativo.
A volte, senza un vero interesse al convegno e solo per soddisfare l’obbligatorietà prevista dalla legge e sanzionata con la cancellazione dall’albo.
A volte, senza nemmeno partecipare al convegno o meglio presenziando all’inizio ed alla fine dello stesso.
A mio avviso, un sistema da riformare profondamente, iniziando innanzitutto dall’eliminazione della norma che prevede la cancellazione dall’albo per chi omette di partecipare ai corsi obbligatori.
Un sistema che dovrebbe offrire ai Colleghi una serie di approfondimenti specialistici, semmai su piattaforma digitale nazionale, ma io direi europea ed internazionale, in collaborazione con le Università, gli altri Ordini e la scuola superiore della magistratura, accessibile a tutti e che il singolo avvocato deve poter scegliere liberamente in base a ciò che egli reputa interessante da approfondire.
Un sistema per portare all’esterno del nostro mondo le conoscenze proprie delle eccellenze di cui disponiamo.
Un sistema che potrebbe essere finanziato con le risorse economiche che i singoli iscritti già versano indirettamente al CNF attraverso i Coa territoriali ma anche attraverso la vendita del nostro know how.
Un sistema che dovrebbe avvicinarsi alla eccellenza della scuola di formazione dei magistrati, semmai con scelte ed investimenti finanziari che premino meno le iniziative editoriali o le varie indennità e dimostrino maggiore attenzione ad una Classe forense che oggi è bastonata dall’esterno e, purtroppo, è così percepita anche dall’interno.
Un sistema libero da obblighi, tantomeno sanzionati dalla cancellazione da un albo professionale che lo ricordo a me stesso – costituisce il presupposto necessario per poter esercitare la più bella professione del mondo che è bella perché è libera.
Ma le modifiche degli ultimi anni non mi sembrano andare in questa direzione e bisognerà rimettere la barra a dritta, in un percorso liberale, come è la nostra professione da secoli, per raddrizzare una barca in balia di personalismi e scelte populiste.
Chiudo il mio intervento, ringraziandovi per l’attenzione, affermando che a nulla può servire lamentarsi delle difficoltà della nostra società, ovvero dell’impoverimento dell’insegnamento universitario, o ancora attendere una riforma dell’insegnamento universitario nelle facoltà di giurisprudenza, perché la capacità di un gruppo professionale di difendere ed ampliare ruolo e status discende dalla tempestività delle scelte e non dalla nobiltà delle attese.
Avv. Vincenzo Pecorella