Il titolo dice tutto, ed anche qui, un cultore del significato e del linguaggio potrebbe sbizzarrirsi sul doppio valore da attribuire alla parola “titolo”.
NAD è un’associazione che nasce da un profondo bisogno di autocritica dell’avvocatura. Noi riteniamo che “blandire” la categoria forense, ignorarne i problemi e le colpe, sia il peggior modo di servire gli avvocati.
L’avvocatura massificata ha fatto del male agli avvocati, oltre che all’avvocatura. Ha trasformato le dinamiche interne alla classe forense italiana, da quelle legate al denaro a quelle sui controlli di bilancio, da quelle deontologiche a quelle politiche, in un gigantesco affare, corrotto e clientelare. Oggi la corruzione dell’Ordine Forense non fa più notizia, non è nemmeno un elemento che scandalizza, nel momento in cui lo si denuncia. Più prosaicamente, la corruzione e l’illegalità che scandiscono la vita istituzionale dell’avvocatura sono diventati elementi di costume, fattori endemici, che periodicamente ritornano agli onori delle cronache solo quando qualche sintomo eclatante consente ai notiziari di speculare sull’avvocato corrotto di turno.
Il sistema ordinistico, concepito su basi onorifiche, settarie, cavalleresche, non ha retto in alcun modo all’onda d’urto della massificazione. L’avvocatura di massa, fenomeno caratterizzante e qualificante dei tratti dell’avvocatura italiana contemporanea, lungi dal diventare oggetto di studio ed analisi politiche, è rimasto per l’Ordine un convitato di pietra, un grande assente, trattato con ipocrisia ed ignavia. Sui troppi avvocati si è costruita addirittura una mitologia assolutoria, paragonando, in modo demenziale e privo di qualsiasi valore logico, economico e giuridico, la necessità di tanti avvocati in ragione di tante cause da patrocinare. In due parole: un delirio.
Ciò che non si è mai voluto mettere al centro del dibattito, culturale e politico, che una seria categoria dovrebbe sempre affrontare, sono invece le gravi patologie che la massificazione della professione ha introdotto nell’avvocatura. Il fatto che l’Ordine Forense abbia perso progressivamente autorevolezza e possibilità di controllo, perché non abbia formato strumenti adeguati, con una deontologia che in Italia è da sempre una burla, affidata inoltre ai politicanti della categoria, che giudicano in difesa di concezioni e posizioni politiche.
L’elemento disastroso legato ai vantaggi per i componenti delle istituzioni forensi, avvocati usciti dall’anonimato professionale solo grazie ai propri ruoli, in mancanza dei quali sarebbero stati destinati all’inevitabile oblio.
In ultimo, per venire al tema di questo articolo, la vergognosa vicenda dell’accesso alla professione, che negli anni ha segnato, fin dal principio, il marchio di infamia e la perdita di credibilità della professione forense.
L’ESAME DI AMMISSIONE IN ITALIA: TRAGEDIA E FARSA.
L’Italia è il paese della cultura ipocrita. L’avvocatura incarna appieno questa ipocrisia. L’avvocato italiano sa tutto di tutto, sulla carta, in modo da non sapere spesso quasi nulla… in realtà. E’ drammatico, scorante, avvilente e mortificante, ma putroppo è così.
L’esame di ammissione alla professione forense in Italia è un dramma. I sistemi di controllo delle masse che si riversano nei padiglioni delle strutture che accolgono gli aspiranti al titolo, sono inefficaci e la corruzione regna sovrana. I controlli degli elaborati degli esaminandi sono semplicemente una vergogna: i giudizi sono arbitrari ed oscuri, i tempi di correzione sono incompatibili con qualsiasi logica, contrari alle leggi ed al decoro, costringono gli aspiranti a rifare l’esame, solo perché la prima prova è ancora sub judice. Uno scandalo, uno schifo indicibile, che l’Ordine Forense conosce bene, ma che non ha né la voglia, né le qualità morali per arginare.
Per anni attorno all’esame di ammissione alla professione forense si è sviluppato un gigantesco mercato, fatto di corsi di preparazione che avevano il vero scopo di fornire “aiutini” ai corsisti, vendita di materiale librario di supporto, vere e proprie tangenti, versate a presunti facilitatori. E tutto questo solo per quanto riguarda l’esame scritto, al quale, in un gigantesco rigurgito di vessatorietà culturale, di stampo universitario e retrogrado, si è affiancata la pantomima della prova orale. Montagne di diritto, cinque materie, vaste ciascuna quanto una sterminata steppa caucasica, che lo sventurato esaminando deve dar prova di conoscere, in un solo giorno.
Una follia. In un mondo dominato dalla conoscenza fluida, specializzata e specialistica, settoriale ed elastica, all’avvocato italiano viene ancora richiesto di ricordare un immenso numero di nozioni, totalmente inutile ai fini dello svolgimento della professione futura. Gli esaminandi sono costretti a settimane e mesi di violenze intellettuali, curvi su libroni che appaiono strumenti di tortura medievale, più che validi supporti al sapere che serve a vivere la contemporaneità. Una vera tragedia, un disastro di proporzioni bibliche, che desertifica le menti dei futuri avvocati, cancellando dalle loro teste, grevi di nozioni e disseccate di pensiero, ogni speranza di imparare a pensare il diritto.
LA VIA TEDESCA E’ IL MODELLO DA SEGUIRE.
La proverbiale serietà del popolo tedesco è proverbiale proprio perché reale. Anche per quanto riguarda l’accesso alla professione, i tedeschi hanno dato lezioni a tutta l’Europa, costruendo un sistema completamente diverso da quello italiano, enormemente più dignitoso e credibile. L’esaminando viene accompagnato verso la professione con indicazioni che si esplicitano già durante gli studi universitari. L’esame è un percorso, con prove che possono durare mesi, consistendo in tirocini, elaborazione di studi, affiancamenti.
Le caratteristiche che dovrebbe avere un serio esame di ammissione alla professione forense, dovrebbero in primo luogo tener conto che tale professione dovrebbe tornare ad essere appannaggio di una elite culturale ed intellettuale. La massificazione del titolo, il “todos caballeros” che l’Ordine Forense ha concesso, per motivi abietti ed inconfessabili, è ormai un refuso storico che grida vendetta, oltre a coprire la professione di ridicolo.
L’avvocato deve essere il migliore e il meritevole, nel campo del diritto, così come prevede la Costituzione italiana. Non si può più illudere la cittadinanza che esista un generico ed indiscriminato diritto a divenire avvocato, come se questa professione possa svolgersi a semplice richiesta e non invece solo a condizione di possedere capacità particolari, cultura molto superiore alla media, un comprovato talento per il diritto.
L’avvocato dunque non dovrebbe essere selezionato in base a prove quotidiane, che peraltro, come abbiamo visto ed analizzato in questo articolo, in Italia oggi sono demenziali e corrotte. Ciò che invece si dovrebbe fare è una formazione e selezione spietata e meritocratica, che avvenga sin dal corso di studi universitario, mettendo in competizione gli aspiranti al titolo, selezionando davvero i migliori, impedendo che la mediocrità trasformi l’accesso in una prova di tenuta della mediocrazia, piuttosto che nella ricerca dell’eccellenza.
Tutto ciò non avviene, le bocciature fioccano e i bocciati si ripresentano all’esame, una, due, tre, cinque, cento volte, potendo giustamente vantare a propria discolpa che la corruzione e l’inattendibilità dell’esame di accesso, non consentono di valutare l’aspirante avvocato ritenuto non ideoneo, realmente inidoneo allo svolgimento della professione. La promozione così, lungi dal conferire all’avvocato un titolo quasi “nobiliare”, un attestato di qualità indiscussa ed indiscutibile, che potrebbe in tal caso avere anche un enorme valore economico, aiutando il giovane professionista neoabilitato ad essere immediatamente investito della fiducia dei clienti, getta il “promosso” nel calderone del discredito. Il neoavvocato, sin dal primo giorno successivo all’agognata abilitazione, si accorge (se non lo aveva fatto già prima), di essere considerato dalla società e dai suoi potenziali clienti alla stregua di un mestierante. Le sue presunte doti giuridiche sono messe in dubbio immediatamente, il cliente potenziale “non si fida”, perché ha dinanzi agli occhi decine di migliaia di “avvocati” incolti, incapaci, disonesti.
E’ un dramma. La massificazione e squalificazione dell’accesso alla professione toglie valore al titolo, umilia ed impoverisce i colleghi davvero validi e preparati, costringendoli ad uno step successivo di investimento sul proprio titolo, che solo i ricchi si possono permettere, ovvero la ricerca di eccellenze formative, spesso private, che possano dare al neoabilitato un titolo davvero spendibile sul mercato, in grado di aprirgli le porte di un guadagno decoroso, e non di condannarlo all’inedia.
TUTTI AVVOCATI, NESSUN AVVOCATO…
La perdita di valore e di credibilità del titolo, la massificazione dell’avvocatura, hanno dunque già compiuto il proprio dovere. Impossibilitati a ritrovare prestigio sociale e valore economico nel titolo, gli avvocati italiani vagano in massa tra le pieghe della sopravvivenza, impegnati in attività degradanti, a bassissimo valore aggiunto, impossibilitati a fare il prezzo, in ragione di una spietata concorrenza al ribasso, frutto ineliminabile di un numero di offerte drammaticamente superiore alle domande, impoveriti e resi anonimi dalla pletora di omologhi che, solo vivendo, o meglio, sopravvivendo, abbatte drasticamente le possibilità di impiego e di guadagno dello sfortunato avvocato senza nome.
E’ il trionfo dell’imprevidenza. E’ la democrazia al suo peggio e al suo contrario, figlia di una visione autolesionista ed ignorante del diritto all’accesso agli studi superiori, che ha finito con il relegare gli esponenti delle classi povere in un sottobosco di titolati proletari, lontani dai luoghi di creazione e spartizione di valore, ma ha concesso alle loro famiglie, povere e disagiate, di festeggiare il bambino, diventato avvocato (ma ci pensate… mio figlio è avvocato!!! Cit.)
CHI DA QUESTO INCUBO NERO CI RISVEGLIERA’, CHI MAI POTRA’?
E’ un gigantesco tritacarne. Esponenti di una subcultura, accattoni, sopravviventi e mestieranti, percorrono l’Italia blandendo i disperati, narrando di come ci sia spazio per tutti, descrivendo, senza alcuna cognizione economica, l’immediata trasformazione della massa, anonima e squalificata, in elite di massa, associata in mega studi dalle pareti di vetro, con avvenenti segretarie a fare da contorno al mito.
Nulla di più falso. La concentrazione degli studi legali porterà anche maggiori concentrazioni di valore economico. Se oggi il 15% degli avvocati italiani si spartisce circa il 65% del fatturato professionale, tra dieci anni questo dato diverrà ancora più sbilanciato, spostando ulteriore ricchezza dall’avvocato anonimo e squalificato, verso le grandi e medie law firm, multifunzionali e capitalizzate. La prestazione legale diverrà in primo luogo brand e capacità di offrire al cliente un mondo sconosciuto, frutto di competenze diversificate e specialistiche. Questo sarà l’unico modo che i legali del 2027 avranno per ottenere valore legalmente.
Certo, resteranno le pratiche illegali, il contenzioso artificiale, i paradisi dei paraurti, lisergici, inutili e dannosi per la società e per l’avvocatura, ma tali pratiche, sempre più residuali anche in Italia, verranno spazzate via dall’ingresso degli strumenti di definizione contenziosa già largamente in uso in Europa, da vari decenni.
Tra dieci anni nessun avvocato serio farà ricorsi avverso “le multe”, perché un meccanismo che consenta un contenzioso abnorme, per sanzioni da pochi euro, è inimmaginabile in un ambito giuridico interconnesso e funzionale. Il diritto collaborativo, fatalmente e nonostante l’introduzione in Italia di un quarto grado di contenzioso, con la vergogna della mediaconciliazione preventiva ed obbligatoria, comincerà finalmente a divenire il gold standard della fenomenolgia giuridica.
L’a(e)ccesso indiscriminato e bulimico di avvocati verrà allora guardato con gli occhi nostalgici di un sogno infranto, quello del tutti avvocati, tutti ricchi. La bolla è già scoppiata, la fame incalza i più deboli. Il futuro ha già messo radici nel presente.
Avv. Salvatore Lucignano
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