Lo studio del presente articolo darà diritto a quattro crediti formativi in materia obbligatoria.
Il problema che riguarda il dumping sociale e le implicazioni che ha sul lavoro, sia dipendente che autonomo, non può più essere affrontato sulla base di una visione distorta e sostanzialmente errata, del concetto di “concorrenza”.
La visione neoliberista che ha caratterizzato sul piano normativo l’istituto della concorrenza in Europa a seguito della direttiva Bolkestein non è una base necessaria ai fenomeni giuridici connaturati ai mercati dei servizi. In particolare, ci siamo già occupati del fenomeno della concorrenza distruttiva, che cannibalizza i players di mercato, parlando di condizioni di regolamentazione del mercato che impediscano il dumping.
Il tema rimane di attualità, perché in Italia, almeno all’interno dell’avvocatura, si continua da mesi a parlare di “equo compenso”, senza una visione chiara del dei fenomeni che hanno generato il dumping interno alla professione forense.
Essi sono più di uno e non possono essere analizzati in modo disgiunto. In particolare si possono individuare tre macroaree in cui si annidano le prassi deteriori che stanno svilendo le prestazioni intellettuali, perlomeno se restiamo all’interno dell’economia classica. Ciò perché l’economia on demand e le macchine pensanti stanno per portare nuovi problemi in un settore già saturo e allo stremo.
I tre fattori classici che hanno deteriorato la concorrenza all’interno dell’avvocatura massificata sono essenzialmente:
- accesso alla professione indiscriminato;
- abuso del diritto di stabilimento;
- formazione di oligopoli derivanti dalla nascita di falsi mercati.
ACCESSO
Questo iprimo elemento continua ad essere oggetto di propaganda, legato soprattutto al vocabolo “liberalizzazione”, usato in modo del tutto improprio. E’ un effetto collaterale della concezione iper-ribassista e neoliberista della concorrenza. Si teorizza che l’effetto sociale di un accesso indiscriminato alla professione forense possa ampliare le libertà ed i diritti dei cittadini, sia nelle vesti di prestatori del servizio legale, sia in quelle di consumatore.
Ovviamente si tratta di un colossale falso, che mistifica totalmente i fatti. Il sistema di accesso all’avvocatura in Italia, è stato negli anni uno dei maggiori elementi di impoverimento della categoria. Gli avvocati italiani, quasi totalmente ignoranti di concetti e cognizioni macroeconomiche e a digiuno di teoria del valore economico, hanno totalmente rimosso la coscienza che l’accesso indiscriminato alla professione forense, mediamente più semplice in Italia che in altri paesi europei, avrebbe progressivamente ed irrimediabilmente sottratto valore proprio a chi accedeva alla professione. Tutto ciò ovviamente prima che si tentasse di chiudere le porte delle stalle, ovvero di chiuderle in faccia ai tori che si riversavano nella professione, ricorrendo a tecniche le cui analisi esulano le finalità di questo articolo, ovvero la corruzione e l’arbitrio nella concessione del titolo di avvocato.
Del resto dell’accesso alla professione forense mi sono già occupato spesso, analizzando la coppia valore e valori, come dicotomia improduttiva, nonché l’andamento del numero degli avvocati italiani e dei loro redditi. E’ uno dei grandi nodi irrisolti della professione forense in Italia, che necessiterebbe, per poter essere adeguatamente affrontato, di una grande opera di alfabetizzazione della categoria.
L’effetto dell’accesso indiscriminato alla professione forense ha generato fenomeni deteriori devastanti, aspettative irrealistiche, tendenziale sovrapposizione tra coloro che completavano gli studi in giurisprudenza e coloro che, essendo “più meritevoli”, avrebbero dovuto e potuto divenire avvocati.
Questo fenomeno ha prodotto il sacrificio del merito, con accentuazione dell’ingresso “classista” nella professione forense. Questo perché l’accesso alla professione, appiattendo il valore di tale ingresso, non consentiva alle categorie sociali più deboli di ammortizzare quei costi e sacrifici che i figli dei ricchi si potevano permettere di mettere in conto.
L’unico rimedio a questa tendenza, data dalla spirale
accesso indiscriminato – perdita di valore della prestazione – perdita di valore del titolo – insignificanza del merito –
è il recupero di condizioni di accesso severamente meritocratiche, volte a concedere un titolo di “valore” a chi entra nella professione forense. Ciò consentirebbe di riportare valore nell’avvocatura, contribuendo a debellare l’odioso classismo che la pervade. Questo comporterebbe anche un drastico abbattimento dei costi sociali scaricati dall’avvocatura squalificata. La rinascita di un’accesso all’avvocatura selettivo e meritocratico, restituirebbe al paese un elemento propulsivo, fondamentale non solo al suo avanzamento, ma anche ad una vera concorrenza, regolata finalmente dalla ricerca dell’eccellenza.
STABILIMENTO
http://https://www.youtube.com/watch?v=vZWw-_ICMoc
Anche del diritto di stabilimento mi sono già occupato. L’abuso del diritto di chi è andato alla ricerca dell’elusione di criteri selettivi, per via di un’aspettativa che rendesse coincidente il diritto allo studio con quello di accesso alla professione forense, ha generato pratiche di stabilimento che non hanno niente a che vedere con una corretta concorrenza. In molti casi il reddito procacciato da attività legali compromesse con pratiche illegali ha fatto da sostegno alla richiesta degli stabiliti di esercitare la professione forense in Italia. In altri termini… prima venivano i clienti e poi la professionalità utile a svolgere la professione di avvocato. Un controsenso, un paradosso che concedeva a chi entrava nel circuito dell’imprenditoria delle vertenze giudiziarie seriali, di poter successivamente acquisire il titolo, necessario a legittimare un’attività di fatto già portata avanti.
Ovvio che con tali premesse, attendersi che gli stabiliti potessero aggiungere qualità ad una platea già squalificata era del tutto irragionevole ed infatti, fermi i singoli professionisti che hanno utilizzato questo metodo, non si può certo dire che l’abuso del diritto di stabilimento, ai fini dell’elusione dell’esame di accesso alla professione, abbia aggiunto qualità ad un livello già universalmente criticato e ritenuto squalificato, all’interno della società italiana.
OLIGOPOLIO
Il risultato della massificazione e squalificazione dell’avvocatura italiana è l’oligopolio. Non è un effetto casuale, ma voluto. I processi di impoverimento della massa che non ha accesso ai mezzi privilegiati di produzione del reddito, portano via via allo sterminio di quel surplus di professione proletaria che non regge il mercato del maggior ribasso. Il dumping indotto dall’abolizione delle tariffe, dalla concorrenza spietata e selvaggia, dall’inefficienza degli strumenti in mano al professionista proletario, che non possono fargli acquisire valore, portano alla decimazione. L’attività diventa sempre meno remunerativa, allontanando il professionista a scarso valore aggiunto dalle strutture capaci di incamerare il maggior valore delle prestazioni legali, attraverso strutture ed organizzazione capitalistica del servizio.
L’oligopolio, approdo finale della cosiddetta “concorrenza” e delle “liberalizzazioni”, elimina il professionista proletarizzato, riduce i players di mercato, favorisce una concentrazione dell’offerta di servizi che porta nuovamente ad un innalzamento del prezzo delle prestazioni, irrigidendo i margini di ribasso e favorendo i cartelli tra i padroni del mercato dell’offerta legale.
Ecco perché la concorrenza senza regole non è un fenomeno socialmente ed economicamente accettabile. I processi descritti in questo breve articolo, all’interno dell’avvocatura italiana, sono già in atto e porteranno, entro cinque o dieci anni, al realizzarsi dello scenario prefigurato.
Avv. Salvatore Lucignano