Le ultime settimane ci hanno posto di fronte un’evenienza apparentemente singolare ma, in realtà, del tutto conseguente alla configurazione attuale della morfologia del ceto forense. Alcuni avvocati hanno condotto la loro vertenza il 20/21 aprile nei confronti di Cassa Forense (NAD ed il movimento ex RID ora MAL), formulando precise richieste all’ente previdenziale, focalizzando i punti imprescindibili di partenza per ottenere un sostanziale miglioramento della condizione socio-economico-previdenzial-assistenziale degli avvocati. Il 13 maggio altri avvocati, in un potpourri di componenti di altri ceti professionali, si sono dati appuntamento a Roma intorno ad una piattaforma rivendicativa vaga, ai limiti dell’impalpabile. Il dato numerico, in termini di manifestanti mobilitati, all’interno dell’avvocatura, considerate le sigle ed i COA impegnati, è ampiamente al di sotto della soglia di rilevanza in termini di efficace supporto ad una piattaforma rivendicativa, tra l’altro sostanzialmente indecifrabile. Qualche osservatore lontano da certe dinamiche potrebbe legittimamente chiedersi: ma perché gli avvocati non hanno manifestato insieme, costruendo un’unica piattaforma rivendicativa ben leggibile? L’osservazione diretta di determinate dinamiche, in azione da circa un decennio, evidenzia che a queste due date sono legati mondi collocati in posizioni antipodiche.
Il 20/21 aprile è stata una delle tappe della presa di coscienza di quella parte di avvocatura, maggioritaria in termini numerici e non ancora incisiva per carenza di momenti organizzativi idonei, che ha ben compreso la necessità di tornare a metterci la faccia, avendo constatato il totale fallimento di tutte le filiere di delega istituzionale, rilevatesi strutturalmente inidonee, in conseguenza della collusione delle stesse con un preciso e chiaro disegno politico ostile all’avvocatura e della conseguente impossibilità di approntare una tutela effettiva delle posizioni e degli interessi della categoria, a causa dell’evidente e chiara compromissione con segmenti di potere politico, dichiaratamente e fattivamente ostili alle istanze che avrebbero dovuto essere oggetto di rappresentazione.
Il 13 maggio, in un minestrone dove c’è tutto ed il suo contrario, abbiamo assistito al tentativo, tardivo e poco credibile, di tutti quei segmenti di potere istituzionale categoriale, di riaccreditarsi con coloro che dovrebbero essere rappresentati ma percepiscono ogni giorno il netto scollamento fra le proprie istanze e gli interessi della filiera istituzionale.
Cartina di tornasole drammatica di detta situazione, ad esempio, è la circostanza tragicomica di confusione con istanze categoriali concorrenti, tra loro antinomiche e tendenti, se vittoriose nella dialettica del confronto democratico, ad un’esiziale riduzione degli spazi operativi propri degli avvocati. Se non fosse chiaro, l’attacco alla categoria ha un grande obiettivo finale, raggiunto il quale potrà definitivamente archiviarsi l’idea di un recupero delle posizioni in termini di status economico sociale del consulente legale: lo scardinamento della riserva di esercizio in vaste aree dell’attività di difesa processuale.
Detto disegno è in fase di piena attuazione, con la graduale sottrazione di aree della giurisdizione all’esclusiva attività dell’avvocato, oltre che con l’aggressiva predisposizione di strettoie e caditoie finalizzate a frustrare, di fatto, la domanda di giustizia, con l’ottenimento di un effetto ottico di “abbellimento” delle statistiche sulle pendenze, attraverso l’applicazione liberticida della “deflazione selvaggia” in ogni anfratto del sistema, il tutto condito dalla costante esplosione dei costi. Un massiccio diniego di giustizia organizzato sistematicamente sotto gli occhi di tutti.
Singolare, ma non sfuggita ai più, è l’incredibile afasia in termini di rivendicazione di una rimodulazione del sistema previdenziale in termini di equità e progressività da parte dei promotori del 13 maggio. E’ evidente che chi ha mobilitato il 13 maggio, non ha alcuna libertà nei confronti dei componenti dei consigli di amministrazione delle casse previdenziali in termini di richieste di misure di radicale revisione dell’attuale sistema. Ma c’è da capire…il welfare attivo, nel caso di Cassa Forense, quest’anno ha sfornato una golosissima torta da un milione di euro per quelle associazioni che dovrebbero veicolare queste istanze. Ma se per loro è così generoso, questo welfare possono mai definirlo “cattivo”?
Avv. Giuseppe Fera – Direttivo Nazionale Nuova Avvocatura Democratica