A ridosso dell’approvazione al senato del DDl concorrenza e a proposito di quanto previsto in tema di società di avvocati, è difficile sfuggire all’imbarazzo e al disagio di chi deve muoversi tra il pensiero unico dominante dell’efficientismo economico, la realtà dominata dal capitale e l’ambizione a contraddire tale contesto, senza concedersi a temi propri dello strumentario assiologico classico, che governano le libere professioni come professioni intellettuali.
Leggendo il disegno di legge ho rievocato il celebre titolo del film di Massimo Troisi “Pensavo fosse amore ed invece era un calesse”.
Ancora una volta la fiducia di vedere in una legge riconosciuta l’alta funzione costituzionale della professione è sprofondata di fronte all’ennesimo tentativo ipocrita, che celandosi dietro le invocate palingenetiche resurrezioni economiche della professione ne frusta irrimediabilmente la funzione.
E così non si può sfuggire ad un giudizio tranchant di incompatibilità radicale e radicata, sia etica che economica, che insiste tra i soci di capitali, come evocati nel DDL concorrenza, e professionisti maritati con questi in società.
Il disegno di legge sulla concorrenza, approvato in prima lettura dal Senato, disciplina l’esercizio della professione di avvocato in forma societaria, prevedendo l’apertura anche ai soci di capitale, con il limite invalicabile di un terzo, sia per quanto riguarda il capitale, sia per i diritti di voto. Almeno due terzi, infatti, devono appartenere ad avvocati o a professionisti iscritti ad Albi di altre professioni regolamentate.
Sul punto credo che non sia possibile transitare tra le forche caudine del compromesso migliorativo, come da un po’ di tempo è abituata a fare la rappresentanza istituzionale dell’Avvocatura, essendo in gioco la stessa natura ontologica della professione e l’ asse su cui vuole muoversi nel futuro.
Inoltre, anche sul versante, dell’efficientismo economico, la scelta delle società di capitali per la professione di avvocato non ha giustificazione economica. Il socio di capitale a fronte di un investimento iniziale sul capitale sociale di studio, lucrerà sul lavoro professionale dell’avvocato, in proporzione e per tutta la vita, sugli utili prodotti.
Ma ciò che è davvero indigesto è l’assetto valoriale cui conduce il Disegno di Legge. Dal versante dell’ etica professionale vengono minacciate in modo serissimo la sfera di autonomia e di indipendenza dell’ Avvocato, il quale deve essere libero da condizionamenti nella scelta della difesa dei diritti .
Deve infatti scongiurarsi la formazione di una graduatoria di diritti che è più utile difendere rispetto ad altri, in quanto ritenuti tali dal socio di capitali. Il rischio di classificazione dei diritti, al di là di delle cautela di governance, risiede nei meccanismi propri di partecipazione e di influenza delle società di capitali, la cui finalità è quella esclusiva di produrre redditi.
I diritti e gli avvocati non possono addomesticarsi alla sferza del capitale o peggio alle sue “sirene voluttuose”, suggerendo di abbandonare difese poco remunerative, magari a tutela di diritti fondamentali violati.
La stessa riservatezza cui è tenuto l’avvocato è destinata a cedere il passo al diritto di ispezione e controllo del socio come prevede l’art. 2476 c.c.
Altro rischio che minaccia la cultura giuridica del avvocato è quello dell’appiattimento scientifico tarato sulle esigenze della monocommittenza, che potrebbe coincidere con il socio di capitale. Le multinazionali per esempio avrebbero o potrebbero avere interesse ad esternalizzare il proprio contenzioso in uno studio legale in cui esse stesse sono soci di capitale.
La ricetta delle società tra avvocati, rappresenta un vulnus dal punto di vista etico, senza rispondere alle esigenze economiche dell’avvocatura, tanto più che la legge inizia a riconosce spazi di giurisdizione agli avvocati nella partecipazione all’ amministrazione della giustizia .
Si scontrano due visioni della professione, che non è scontro tra antichità e modernità, ma come sempre e spesso accade tra valori. Gli avvocati hanno il dovere di liberare la professione dall’inoculamento del virus dell’ efficientismo economico per difendere l’autonomia e l’indipendenza di difendere tutti i diritti di tutti i cittadini.
Un avvocato asservito e condizionato dal potere economico è funzionale ad una società che si regge sulle divisioni e le discriminazioni e come ammoniva Calamandrei “gli avvocati non sono né giocolieri da circo, né conferenzieri da salotto: la giustizia è una cosa seria.
Ma sembra che ne’ il legislatore, né le rappresentanze politiche dell’avvocatura se ne siano avvedute.
Avv. Michele Arcangelo Lauletta – Nuova Avvocatura Democratica