Relazione illustrata dall’Avv. Giuseppe Fera, Tesoriere Nazionale di Nuova Avvocatura Democratica, in occasione del convegno organizzato dalla nostra associazione a Roma, in data 26 gennaio 2017
LA FINE DELLA MUTUALITA’ OBBLIGATORIA: POSSIBILE?
Che cos’è la pensione? La domanda potrebbe apparire un tentativo di far partire questo confronto da troppo lontano, ma è invece la doverosa premessa del nostro incontro odierno. Se infatti, per molti decenni, la pensione è stata un elemento “certo”, nella vita dei cittadini italiani, oggi non possiamo affermare altrettanto. Gli elementi di incertezza sul tema sono diventati di pubblico dominio perlomeno da quando, a far data dal 1 gennaio 2012, la cosiddetta riforma Fornero ha abolito il calcolo retributivo come strumento per valutare gli importi delle pensioni da corrispondere a tutti i lavoratori italiani.
La pensione, con il passaggio al sistema cosiddetto contributivo, è divenuta per molti cittadini, soprattutto per quelli più giovani, una cosa diversa da quella che era per gli italiani che andavano in pensione 10 o 20 anni fa. Eppure da allora la definizione di pensione non è mutata, ciò che invece è radicalmente mutato, nel paese, è il rapporto tra prestazioni erogate dallo Stato e risorse disponibili, da un lato, oltre alla sostenibilità e ragionevolezza della contribuzione previdenziale obbligatoria per i cittadini, dall’altro.
Negli ultimi anni, la montagna di debito pubblico gravante sugli italiani ha visto proprio le pensioni tra i maggiori imputati di questo stato di cose, spingendo lo Stato ad agire secondo due direttrici, molto chiare: innalzare l’età pensionabile, mantenendo i lavoratori attivi per più tempo, e destinare sempre meno risorse, derivanti dalla fiscalità generale, al finanziamento del sistema pensionistico.
L’introduzione del sistema contributivo, operato con la Legge n. 335/1995 (cosiddetta riforma Dini), ed in vigore in Italia dal 1 gennaio 1996, ha dunque creato una frattura, non solo economica, ma concettuale, tra ciò che la pensione era, fino agli anni 90, e ciò che invece è oggi, nel 2016, o più ancora, ciò che sarà in futuro.
Scopo di questo incontro non è ovviamente diffondersi sull’analisi dei sistemi, sull’equità di quanto è accaduto nel paese e sulle ragioni per cui si sono operate certe scelte. Si tratta di considerazioni probabilmente di retroguardia, e comunque estranee ai nostri scopi. Ciò che vogliamo discutere è invece se la diversa situazione economica italiana e un sistema di calcolo delle pensioni di vecchiaia basato interamente sui contributi versati dal lavoratore, rendano ancora attuale, ed in prospettiva utile, per i cittadini ed il paese, il vincolo mutualistico posto alla base della contribuzione previdenziale obbligatoria.
Una riflessione su questo aspetto, che lega l’obbligatorietà del sistema pensionistico pubblico, quanto alla sua estensione a tutti i cittadini e ai lavoratori, alla relativa contribuzione versata dai lavoratori ai fini previdenziali, non può che partire dalle norme del nostro ordinamento che disciplinano i due aspetti: esse sono in primo luogo gli articoli 38 e 53 della nostra Costituzione.
L’art. 38 in particolare prevede che: “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.”
Vale la pena soffermarsi preliminarmente su questa norma: essa considera i mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori, in determinate circostanze, inclusa la vecchiaia, come un diritto. Nulla in questa norma presenta la previdenza generale obbligatoria come un obbligo. Vi è inoltre un esplicito richiamo ai mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore. Si stabilisce cioè che il fine dei sistemi di assicurazione generale in cui siano integrati i lavoratori sia quello di garantire ad essi i mezzi adeguati alle esigenze di vita, in determinati casi, che la Costituzione vigente ha elencato.
A questo punto potremmo dunque porci una domanda: quid iuris nel caso che il lavoratore chieda di rinunciare al diritto regolato dall’art. 38 comma 2 della Costituzione Italiana, o perché in grado di assicurarsi diversamente i mezzi necessari alle sue esigenze di vita, nei casi previsti dalla norma, o perché impossibilitato a destinare alla contribuzione previdenziale obbligatoria una quota del suo reddito da lavoro?
E’ di tutta evidenza e non bisogna certo spiegarlo ai colleghi intervenuti e presenti a questo dibattito, che una tale rinuncia allo stato risulta indisponibile per i lavoratori. Essi infatti sono obbligati dalle leggi a concorrere, con il versamento dei relativi contributi, al mantenimento di quegli istituti che lo Stato ritiene necessari a garantire ai lavoratori i mezzi di cui all’art. 38 della Costituzione.
Ci si chiede però, ed è legittimo farlo, se vi sia una norma di rango costituzionale che imponga un tale obbligo, visto che l’art. 38 non parla di obblighi, ma di diritti.
Questa norma esiste, ed è l’art. 53 della Costituzione italiana, che prevede che tutti siano tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, ma che il sistema tributario sia informato a criteri di progressività.
Dunque, laddove lo Stato ritenga, come effettivamente ritiene, che un sistema pensionistico pubblico sia necessario e vada imposto a tutti, secondo quanto disposto dall’art. 53 della nostra Costituzione, sicuramente tutti, e non solo i lavoratori, sono tenuti a concorrere alle spese necessarie per sostenere tale sistema.
E’ proprio quanto avviene in Italia in materia di mutualità obbligatoria. Lo Stato assoggetta tutti i cittadini a forme di previdenza ed assistenza obbligatorie, chiedendo ai lavoratori, tra cui sotto questo aspetto vanno sicuramente annoverati gli avvocati, di concorrere alle spese necessarie al loro funzionamento.
Chiariti i diritti e gli obblighi generali che la Costituzione pone a capo dei cittadini e dei lavoratori, possiamo concentrarci sugli aspetti e i problemi che riguardano più da vicino l’avvocatura italiana. Essi oggi appaiono essenzialmente di due tipi:
- affrontare la questione del versamento di minimi contributivi obbligatori, slegati dal reddito dell’avvocato tenuto al pagamento;
- verificare se gli esigui importi delle pensioni di vecchiaia ottenibili dall’avvocato che versi contributi previdenziali minimi, giustifichino ancora il legame mutualistico obbligatorio richiamato dall’art. 38 della Costituzione.
Quanto al primo aspetto, è noto che dal 2014 tutti gli avvocati italiani siano tenuti all’iscrizione obbligatoria alla Cassa di previdenza forense, concorrendo con una somma minima inderogabile al sistema previdenziale dell’avvocatura, pena l’impossibilità di restare iscritti all’Ordine Forense.
La giurisprudenza e la dottrina che hanno trattato il tema, hanno praticamente sempre concordato su alcuni principi ai quali il legislatore abbia l’obbligo di attenersi. I contributi previdenziali slegati dal reddito del soggetto obbligato sono stati più volte dichiarati leciti, sia dalla Corte Costituzionale che dalla Corte di Cassazione, che hanno ancorato il limite alla discrezionalità impositiva statale, in materia di contributi previdenziali, unicamente alla violazione della ragionevolezza della pretesa.
Sotto questo aspetto, tra i tanti riferimenti che Nuova Avvocatura Democratica ha offerto, anche mediante la pubblicazione di uno specifico excursus sul nostro sito internet, intitolato “I contributi previdenziali minimi e l’articolo 53 della Costituzione”, in questa sede può bastare il richiamo alla sentenza n. 4146, del 15 maggio 1990, resa dalla Sezione Civile Lavoro della Corte di Cassazione e alla sentenza n. 167 del 1986, resa dalla Corte Costituzionale.
Il combinato delle due pronunce chiarisce, con argomentazioni mai successivamente smentite da provvedimenti aventi valore nomofilattico, che i contributi previdenziali versati dai cittadini lavoratori sfuggono al criterio di progressività, per cui non può dirsi in contrasto con tale criterio l’imposizione di minimi che risultino maggiori, in percentuale al reddito, per i percettori di redditi minori, rispetto a quelli versati dai percettori di redditi maggiori. Sotto un altro aspetto, le sentenze richiamate hanno confermato la natura obbligatoria dei versamenti dei contributi previdenziali, in ragione non di una corrispondenza tra le controprestazioni offerte dagli enti pensionistici e i contributi richiesti, bensì sulla mera base del vincolo mutualistico, inderogabile ed insindacabile, contenuto nei principi costituzionali che regolano il nostro ordinamento.
In altri termini, lo Stato italiano ritiene che un avvocato sia tenuto a versare contributi minimi stabiliti per legge, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza del loro ammontare, ed indipendentemente dall’idoneità delle pensioni, erogate dal sistema obbligatorio, a garantire quei mezzi necessari alle esigenze di vita, pur richiamati dall’art. 38 della Costituzione.
La domanda che questo convegno si pone è: si può ancora ritenere legittima e produttiva di effetti positivi una tale politica?
Sotto il profilo della liceità è possibile avanzare molti dubbi. Giustificare una imposizione che esula da ogni riferimento ed ancoraggio al reddito del professionista, assoggettato al dovere di concorrere ad un sistema di solidarietà nazionale obbligatoria, è una concezione che oggi si pone a metà strada tra la tragedia e la farsa. Questo perché sono proprio quei professionisti poveri, che faticano a procurarsi un reddito sufficiente alle loro attuali esigenze di vita, a non poter concorrere alla mutualità obbligatoria, senza limitare le proprie risorse al punto da dover rinunciare allo svolgimento dell’attività professionale.
Una vasta fascia dell’avvocatura italiana, che vede oltre un terzo dei propri componenti dichiarare redditi inferiori ai 10.300 euro annui, si trova dunque oggi costretta a versare somme che possono rappresentare anche il 40, il 50 o il 100% del proprio reddito annuale, a titolo di contributi previdenziali obbligatori. Un corto circuito, che vede lo strozzamento della parte più debole della nostra categoria, quella che avrebbe bisogno di ricevere solidarietà, in ragione di un obbligo generalizzato di solidarietà che lo Stato le impone.
Parlando del secondo aspetto indicato, ci si chiede se oggi sia ancora possibile e proficuo per lo Stato, privare i cittadini e dunque gli avvocati, di parte del proprio reddito disponibile, se comunque l’assolvimento degli obblighi previdenziali, in caso di redditi che permangano bassi, non servirà ad offrire a quei cittadini delle pensioni di vecchiaia sufficienti a garantire le risorse di vita necessarie.
Questo tema, che di recente è stato più volte affrontato nel dibattito pubblico italiano, ha ricadute di carattere economico che non muovono solo da considerazioni sullo stato di difficoltà di molti lavoratori, ma mira a rivedere il concetto di esborsi a titolo contributivo slegati da un valore apprezzabile per chi li versa.
Per quanto riguarda l’avvocatura, i presupposti di una nuova visione della previdenza, liberata da questi vincoli obbligatori, possono ricondursi ad un tentativo ideale di restituzione della natura liberale della professione forense, e più in generale possono contribuire al superamento di un rapporto vessatorio tra previdenza pubblica obbligatoria e gestione libera del proprio reddito disponibile.
Ovviamente lo Stato, di fronte al rifiuto del professionista di assoggettarsi alla mutualità obbligatoria, potrebbe ugualmente continuare a vantare nei suoi confronti una pretesa di contribuzione a meccanismi di solidarietà assistenziale e previdenziale, ma contenendo la pretesa contributiva entro limiti proporzionali al reddito del soggetto tenuto al versamento e facendosi carico dell’erogazione di quelle prestazioni pensionistiche minime, che sarebbero comunque quelle che il professionista sarebbe in grado di garantirsi versando contributi esigui, in ragione di bassi redditi protratti per un lungo periodo di tempo.
Questo assetto consentirebbe al professionista in difficoltà di continuare a svolgere la professione, sostenendosi con i redditi attuali, ed affiderebbe alla collettività ed alla fiscalità generale il compito di garantire prestazioni previdenziali minime al soggetto non in grado di farlo autonomamente. Il tutto risulterebbe compatibile con i principi di solidarietà, progressività e giustizia sociale di cui il nostro ordinamento dovrebbe farsi carico.
Vi è poi un ulteriore aspetto della vicenda mutualistica forense, ma che può essere esteso alle considerazioni sul sistema previdenziale generale e che riguarda quei soggetti i quali, insoddisfatti del sistema previdenziale obbligatorio o comunque sprovvisti di redditi adeguati ad affrontare le proprie attuali esigenze di vita, vogliano provvedere autonomamente alle proprie esigenze previdenziali, magari contando sul proprio patrimonio.
Il principio, se accettato dallo Stato, porterebbe il soggetto che rifiuti i vincoli della contribuzione obbligatoria, a dover assicurare a se stesso ed alla collettività l’erogazione di determinate prestazioni previdenziali e assistenziali, garantendole con elementi patrimoniali assoggettati ad un vincolo obbligatorio di destinazione.
Particolare importanza riveste, in questa proposta, la valutazione approfondita dell’analisi sui costi e sui benefici del modello previdenziale definibile “a garanzia”, contrapposto a quello classico, basato sui contributi versati. E’ infatti fondamentale dimostrare che in questo frangente storico, la disponibilità di maggiori redditi, da destinare a consumi ed investimenti, contrapposti all’accantonamento coattivo di quote di reddito, in ragione degli obblighi previdenziali, possa rappresentare un’opportunità per l’intera società, coniugando esigenze individuali e collettive.
Nuova Avvocatura Democratica ritiene che un simile istituto, che potrebbe essere denominato “Garanzia Ipotecaria Pensionistica”, potrebbe essere adottato, consentendo a chi ne voglia fare uso di sostituire con una garanzia patrimoniale l’esborso reddituale dovuto per fini di mutualità obbligatoria. Le finalità della garanzia dovrebbero naturalmente essere stabilite da norme in grado di delimitare i beneficiari di un simile regime pensionistico, vincolando una quota di patrimonio disponibile alle necessità che lo Stato ritenga inderogabili, sia in rapporto ai bisogni di autosufficienza dell’individuo, una volta terminato il proprio processo di accumulazione reddituale da lavoro, sia per quanto attiene ai doveri di assistenza e solidarietà intergenerazionale e sociale.
La garanzia ipotecaria pensionistica non sarebbe peraltro un istituto totalmente innovativo, basandosi su un principio già riconosciuto dall’ordinamento italiano, ovvero quello di un bene immobile concesso in garanzia, in cambio dell’ottenimento di una somma di denaro. Si tratta del prestito vitalizio ipotecario, che pure è stato ritenuto, sia dalla dottrina che da alcune recenti esternazioni politiche, una possibile forma di integrazione delle prestazioni previdenziali insufficienti a garantire agli anziani una quantità di reddito disponibile tale da bastare alle loro esigenze di vita. La garanzia ipotecaria pensionistica agirebbe però in modo diverso, rispondendo a diverse finalità, rispetto al prestito vitalizio. Lo scopo dell’istituto sarebbe quello di evitare una compressione del reddito disponibile dei cittadini, consentendo di vincolare all’erogazione di prestazioni previdenziali concordate con lo Stato, per importi e periodizzazione dell’erogazione, una quota del patrimonio individuale.
Altra analogia con il prestito ipotecario vitalizio, che pure potrebbe rispondere ad esigenze di mobilitazione di capitali altrimenti improduttivi e “non circolanti”, si otterrebbe immaginando che una garanzia ipotecaria di questo tipo vincolasse immobili residenziali, nella disponibilità del soggetto garante, ovvero messi a disposizione dell’ipoteca di scopo dai suoi congiunti. Il bene ipotecato potrebbe comunque venire usato e messo a reddito, ma non alienato, dovendo concorrere, fino alla somma iscritta nell’ipoteca previdenziale, al finanziamento delle prestazioni assistenziali e pensionistiche considerate indisponibili ed obbligatorie dallo Stato.
Meccanismi di liquidazione del bene ipotecato, mediante versamento dell’equivalente ovvero vendita obbligatoria dell’immobile, al maturamento del diritto/dovere di corresponsione degli assegni previdenziali, potrebbero consentire – a regime – di ottenere le risorse per un nuovo sistema previdenziale, meno vessatorio nei confronti delle esigenze attuali degli individui, ma comunque in grado di mantenere un efficiente livello di prestazioni previdenziali, evitando situazioni di impoverimento ed indigenza delle future generazioni.
Naturalmente gli effetti su quella parte di previdenza costruita “a debito” delle generazioni future andrebbero valutati con attenzione, ma con la possibilità di costruire forme di garanzie “flessibili”, capaci di rendere più efficiente la gestione del patrimonio altrimenti improduttivo, si potrebbero liberare risorse aggiuntive per il sistema paese, che a saldo consentirebbero di compensare le minori entrate derivanti dal mancato versamento dei contributi. Un regime transitorio, che bilanciasse la concessione di una mutualità non più “pagata in anticipo”, bensì “garantita”, potrebbe prevedere forme limitate di versamenti a fondo perduto, tali da consentire la coesistenza tra le due tipologie di sistema previdenziale, in modo sostenibile per la fiscalità generale.
Una ulteriore ipotesi di diversa mutualità potrebbe vedere l’elaborazione normativa di un contratto previdenziale tipo, la cui negoziazione andrebbe affidata al mercato dei liberi capitali globali. Tale contratto dovrebbe essere connotato da vincoli prudenziali, in termini di tipologia di investimento e con standards – ranges prefissati normativamente. Ugualmente regolate per legge dovrebbero essere la durata e l’ entità di contribuzione a carico dell’aderente/assicurato, oltre che la redditività garantita da parte dell’ente finanziario emittente all’accadimento di determinati eventi nella vita dell’assicurato. Detta soluzione potrebbe dare grande slancio al mercato dei capitali privati, restituendo alla platea dei cittadini uno strumento connotato da flessibilità e versatilità maggiormente premianti rispetto all’attuale sistema pubblicistico vincolato.
I cittadini che potrebbero avere accesso a questa tipologia di sistema sarebbero sia coloro che scelgano di destinare i propri redditi attuali ad esigenze di consumo ed investimento altrimenti impossibili, in ragione della pressione tributaria integrata da quella contributiva, sia coloro che vogliano e possano sottrarsi all’obbligo di previdenza finanziata e garantita dal reddito, potendo contare su un patrimonio sufficiente all’autonomia privata, anche in età da pensione. In entrambi i casi si avrebbe un’apprezzabile mobilitazione di risorse, capaci di inserirsi all’interno del circuito economico, con presumibili ricadute positive per l’intera economia nazionale.