Ore 23.22. Faccio un rapido conteggio delle ore che oggi, sabato 7 gennaio, ho passato a studiare. Mi rendo conto che devo aver lavorato, studiato, letto e scritto per almeno 10 ore. Mia moglie e mia figlia già dormono, il mio gatto Asso e la mia cagnolina, Tata, dormono su di me. Siamo noi tre sul divano e Serena e Giulia di là, a letto. E’ la mia giornata tipo. Lavoro, studio, analizzo e cerco tutte le fonti che riesco a trovare sull’avvocatura, intervallo il lavoro di studio, ricerca, analisi, elaborazione, con quello di avvocato. In genere termino alle 2 di notte, e alle 8,30 del mattino ricomincio. Non esistono ferie, sabati, domeniche, festività. E’ rarissimo che passino 24 ore senza che io mi informi, analizzi atti e fatti che riguardano l’avvocatura italiana, europea, americana. Il lavoro è la mia vita, lo trovo normalissimo, non mi pesa, salvo quando la stanchezza diventa così schiacciante da costringermi a fermarmi.
Prendo spunto da due fatti che sono accaduti oggi: numero di avvocati e redditi, da un lato, ed una polemica a mezzo social con una mia elettrice, dall’altro. Sono molto stanco, gli occhi mi bruciano e questo articolo verrà pubblicato solo domattina, per disposizioni del nostro direttivo nazionale. Potrei dormire, ma voglio guadagnare tempo ed allora scrivo.
Antologia di Sput River. Entra Achab, di cui i cani leccarono il sangue.
Evento n. 1. Il venditore di libri.
Un avvocato che conosco bene, un mestierante astuto e scaltro, che cerca di fare i soldi vendendo libri in cui blandisce gli avvocati (“Avvocà, per ora grazie” è comunque scritto proprio bene, vi consiglio di comprarlo), si risveglia periodicamente dalle sue markette verso la pletora di avvocati italiani che si sentono vittime del destino cinico e baro e, soverchiato da un’evidenza che non riesce a negare a se stesso, ovvero che sono l’unico avvocato che in Italia faccia politica forense a livelli qualitativi e quantitativi impossibili anche solo da avvicinare per chiunque altro… riporta la mia analisi sulla necessità di una restrizione ai nuovi accessi per la professione forense. Il tutto sembra muoversi in un etereo regno della riflessione profonda. La domanda aleggia: “che fare?”
L’uomo, come detto, è molto scaltro, anche se, per sua sfortuna, nonostante sia il mio ego a parlare (ho un ego davvero pronunciato, devo ammetterlo), io sia abbastanza difficile da “scaltrare”. L’uomo infatti non ha alcun interesse ad affrontare il problema dal corretto punto di vista, che imporrebbe una riflessione sul prima, sul durante e sul futuro. L’uomo, periodicamente, si pone domande inevase sullo stato della professione forense italiana, concludendo che questa bistrattata professione merita, fortemente merita, fortissimamente merita, che si faccia qualcosa per migliorarla e poi, puntualmente, oltre a tentare di vendere libri a quelli che non fanno niente per migliorarla, non fa assolutamente niente per migliorarla.
Capita così che l’ennesimo paraustiello (per i non napoletani è un termine intraducibile… ma cercatene il significato… vi prego, è cultura), fatto per apparire un intellettuale impegnato nella ricerca delle soluzioni ai problemi dell’avvocatura, sia in realtà solo l’ennesima marketta che il nostro eroe fa a se stesso, per fare propaganda al suo nuovo libro che blandisce gli avvocati, intitolato “uno di duecentocinquantamila – troppi avvocati”, che è una serie di riflessioni con cui il nostro cerca di convincere avvocati con le pezze al culo a comprargli i libri.
Per carità, ripeto, parliamo di un venditore scaltro, di un uomo che si arrangia a vendere libri e che peraltro scrive davvero bene, ma questo legittima le sue estemporanee sortite in cui si dichiara intenzionato a risolvere i problemi dell’avvocatura? Ma proprio no. Infatti, pur conoscendomi da anni, avendo frequentato le mie battaglie, non solo non ha mai mosso un dito per schierarsi, ma si pone, di fronte al presente, al passato e al futuro, quando si arriva alle soluzioni da adottare, ovvero scendere in campo, combattere, candidarsi, prendere i voti dei colleghi, scrivere ricorsi, istanze, denunce… a quel punto… si arriva al finis Africae:
sono vecchio, sono stanco, ho già dato, tocca ad altri, non posso, ho da fare, non me la sento. Ecc. ecc. ecc. ecc. ad libitum.
L’agire politico del nostro è dunque una sublime circonvoluzione attorno a #stocazzo, come si userebbe dire, con gergo moderno, usando un hashtag, che spero di averlo scritto bene, perché con tutte quelle “h” mi sembra una parola tedesca. Il nulla, il niente. Un continuo “che si fa?” ripetuto ciclicamente, per anni, che in realtà maschera la semplice verità: caro Giuseppe, io faccio… mentre tu, posso assicurartelo, non fai una beata @@@@@@ per la nostra professione.
Evento n. 2. L’elettrice delusa.
Passano poche ore, frattanto ho scritto un nuovo compendio di tutte le riflessioni più importanti che in questi anni ho pubblicato, che spiegano chiaramente la questione del numero degli avvocati. Ho fatto lezione di inferenza logica, ho esposto una mole di dati, riflessioni, documenti, analisi, schemi, che in Italia, come ha suggerito con onestà intellettuale qualche ora prima un mio collega, l’avvocato Fabrizio De Luca, non può capire nessuno. E’ vero, ed io lo so bene. Sono il migliore. Non ho mai avuto alcun dubbio in merito. Sono quello che lavora di più e sono quello che lavora meglio e no, accidenti, la modestia… non si può dire!!!
Purtroppo io me ne sbatto della modestia e dunque non solo lo dico, ma lo scrivo, anche molto spesso.
23.47. Passati già 25 minuti dall’inizio della stesura dell’articolo. Ho al mio attivo molte più pagine scritte del mio collega Caravita, ma non ne ho mai venduta una. Sono troppo stupido, o troppo furbo, chissà.
Passano le ore ed io pubblico l’articolo serale che Nuova Avvocatura Democratica inserisce su social network. E’ proprio l’articolo che ho provveduto ad inviare al collega che si chiede “che fare”, in una sorta di onanismo postmoderno da inerte, per spiegargli che il chiedersi “che fare”, mentre c’è chi da anni gli mostra cosa andrebbe fatto e lo fa… è diventata un’attività che farebbe venire un attacco di ipergonadismo persino a Giobbe, quello dalla biblica e proverbiale pazienza.
Passano le ore dicevo (stanotte mi affastello con le parole, accidenti a me) ed una mia elettrice pubblica una domanda sotto al link di un articolo che parla di tutt’altri casi. E’ come se Roger Federer si mettesse a chiedere a Rocco Siffredi dove si trovava quando lui ha vinto il primo Wimbledon, ma va bene, va bene così. La domanda arriva, ed è una domanda retorica, sofista, totalmente autoreferenziale. La domanda è una nuova versione del “che fare” di caravitiana memoria.
La mia risposta è di quelle che non mi rendono propriamente simpatico, lo ammetto. Ha però una “storia”. E’ figlia di quell’ipergonadismo, coltivato in oltre 3 anni di battaglie, vissute con tutto me stesso, mettendo a rischio la professione e la famiglia, per ideali in cui credo. Sono dunque giunto al punto in cui, alla domanda: “nè scusate.. ma che è succies?” che mi chiede di ricominciare tutto da capo, lo ammetto, reagisco male.
“IL CAVALLUCCIO ROSSO”
E’ più forte di me. L’idea che il viandante possa intervenire e chiedere di ricominciare tutto da capo, spiegare oltre tre anni di battaglie, di guerre, di iniziative, e tutto perché in quel momento egli cerca l’illuminazione… lede la mia capacità di sopportazione zen.
Rispondo dunque con una perifrasi che fa capire chiaramente due cose: la prima, che la domanda è di per sé atto politico, in quanto mirante ad ottenere effetti rispetto ad una situazione. La seconda, che siamo arrivati al punto in cui colui o colei che all’improvviso se ne esce e fa: “scusate, ma che è succies?” non può pretendere che si racconti daccapo tutta la storia del cavalluccio rosso. Le risposte sono contenute in anni di documentazione, tutta pubblica e pubblicata.
Cercate e troverete.
Volete combattere per cambiare le cose? Combattete.
Volete limitarvi a dire: “caspiterina… ma così proprio non va…”? Bene, rendetevi conto che così proprio non va.
Lei non crede che dal caos possa nascere l’ordine?
Beh, si potrebbe, ma… mi scusi, cosa c’entra?
R.P.F. Sta scherzando Mr Feynman? Vita e avventure di uno scienziato curioso.
Ore 00.05. Sudario.
Vi ho fregati! Eravate arrivati alla fine dell’articolo e non avevate ancora letto la risposta che ho dato alla mia amica ed elettrice Rita!!! E pensavate che non ve la facessi leggere? Toh… illusi. Ore 00.11. Eccola.
E’ il circolo vizioso che separa il “io so di non sapere” dal più classico “ma tu che cosa sai?”, che se detto a mozziconi diventa tutt’altro che umile. Si prenda la differenza tra Socrate, che sa di non sapere tutto, ma sa anche di sapere più di chiunque altro, e quello che si chiede “che fare” e che chiede a chi fa, cosa stia facendo, ignorando tutto quello che il fattore ha fatto. A quel punto il “tu che cosa fai?”, non è manifestazione di sapienza socratica, ma proprio di quella degenerazione solipsistica della parola, che la svuota dell’idea e la lascia monca, utile solo a se stessa.
“E dunque tu che cosa fai?”
“E tu, cosa fai?” “Io? Niente. Ah si, lavoro. E cosa faccio? Vivo. E come vivo? Scrivo” Cit. Mario Scavalcaidossi
Ore 00.15. Asso non si è praticamente mosso. A Rita ho pubblicato una decina delle nostre iniziative associative. Avrei potuto pubblicarne altre 200, ma Scarpy ha detto di no. I libri che parlano di libri, sublime ricapitolazione, sono tanto alti da essere paragonati ai fatti che raccontano se stessi. E’ la nuova frontiera dell’imprecisione.
Penitenziagite. Downshifting is the way.