Una riflessione su alcuni elementi di politica normativa che dimostrano la volontà di assoggettare l’avvocato a una serie di vincoli che mutano nel profondo l’essenza della professione.
Tra i dieci principi comuni adottati dagli avvocati europei nel 2006 [1], al primo posto spicca l’indipendenza dell’avvocato. Il commento a tale principio, contenuto nella Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo, sottolinea come l’avvocatura vada considerata una professione liberale. Lo stesso documento però, non manca di sottolineare come l’avvocato debba essere sottoposto a molti vincoli, che ne limitano, o comunque indirizzano l’agire.
Il rapporto tra dimensione libera e liberale, da un lato, e vincolata, dall’altro, della professione forense, riflette un conflitto antico, che ancora sembra irrisolto: quello sulla natura ambivalente degli Ordini Professionali. L’Ordine infatti appare costantemente in bilico, tra la tutela di interessi pubblici e la difesa delle prerogative particolari dei propri appartenenti. Questo stato di precario equilibrio, tra difesa dei bisogni individuali degli avvocati e garanzia che essi rispettino determinati standard, fa ancora oggi del sistema ordinistico un elemento incompiuto ed imperfetto della nostra società.
L’assenza di un chiarimento sulla natura dell’Ordine si riflette in pieno sulla Legge Professionale Forense italiana, che [2] elenca una serie di vincoli per l’avvocato che voglia rimanere tale, che sembrano dettati più da una complicità dell’Ordine Forense verso una visione illiberale della professione, che dall’effettiva esigenza di meglio tutelare la collettività.
Tra i criteri dettati da questa norma infatti, ve ne sono alcuni che appaiono francamente incomprensibili, o meglio inaccettabili, per una professione che, nei suoi principi ispiratori, voglia dirsi liberale. In particolare, prevedere che un avvocato possa dirsi tale solo se eserciti la professione in modo continuativo, significa minare la libertà del professionista, imponendogli coattivamente una forma di dipendenza dal lavoro, che non sembra avere nessun effettivo legame con l’esigenza di avere un avvocato migliore all’interno dell’ordinamento.
Il regolamento che si occupa di definire in concreto i principi dettati dalla nostra Legge Professionale [3], ha peggiorato la situazione, imponendo agli avvocati alcuni obblighi del tutto irragionevoli, ed in contrasto con il libero esercizio della professione. Prevedere un’assicurazione obbligatoria del professionista, tanto per fare un esempio, presuppone una visione asimmetrica ed iniqua del rapporto tra avvocato e cliente, stabilendo che l’avvocato debba offrire tutele patrimoniali all’assistito, che pure è legato a lui da un rapporto di fiducia.
Eppure nessuno, né il legislatore, né l’Ordine Forense, si è preoccupato di guardare al rapporto fiduciario anche nella direzione opposta: quella che ogni giorno vede le denunce di avvocati che non riescono a recuperare onorari nei confronti dei clienti, ma che non possono contare, in quel caso, su nessuna assicurazione obbligatoria che gli consenta di godere del sacrosanto frutto del proprio lavoro.
Come giustificare questa sperequazione, se non come la prova che l’avvocato è vittima di una visione, sia da parte della politica, sia da parte dell’Ordine Forense, che lo vede sempre più come un soggetto che debba offrire garanzie alla società? Allo stesso tempo, quale credibilità ha l’Ordine, che è complice dell’emanazione di norme che rafforzano tale visione, per poter difendere l’indipendenza e la libertà della professione? Domande che forse oggi meriterebbero una risposta, affrontando il problema più antico, ovvero l’incompatibilità in capo all’Ordine Forense di funzioni di tutela di interessi sia pubblici che privati.