Questo “mattianale”, datato 2 gennaio 2016, richiama la necessità di utilizzare i social network come archivio politico. E’ un caso in cui la riproposizione di un post, operata da facebook, è assai utile ad ancorare la discussione politica a fondamenta solide, piuttosto che a sabbia. Un anno fa c’era chi ancora tentava di salvare OUA, come modello di organismo unitario e plurale, mentre OUA non faceva assolutamente nulla per salvare se stesso.
Persino in questi giorni, a fronte della sparizione dalla politica forense italiana di quasi tutti gli 88 parlamentari che nell’ultimo biennio sono stati in OUA, è praticamente assente, da parte di questi “politici”, un’analisi autocritica approfondita, che consenta di capire perché l’assenza di qualsiasi resistenza e contrapposizione al regime dell’istituzionalizzazione forense ne abbia agevolato la soppressione.
Eravamo ancora prima di quel 23 gennaio, in cui un sussulto di dignità consentiva ad OUA di prendere posizione contro “Il dubbio”, l’operazione di propaganda del Consiglio Nazionale Forense, messa al servizio del Ministro Andrea Orlando. L’assemblea OUA era quasi totalmente inerte. Il problema della rappresentanza, che io avevo indicato alla giunta, fin da subito, come il primo e più pressante problema che essa avrebbe dovuto affrontare, pena l’annientamento, era ancora estraneo ad ogni attività di elaborazione o critica politica.
Tale sarebbe rimasto, fino al Congresso Nazionale di Rimini, del 6 ottobre, quando una difesa appassionata ed accorata, ma ormai tardiva, di Mirella Casiello, tentava di evitare l’inevitabile.
Questa riflessione, che oggi compie un anno, illustra una delle dinamiche più evidenti della deriva che il regime dell’istituzionalizzazione forense sta imponendo all’avvocatura italiana: non più una professionalità libera e liberale, che muove alla ricerca di valore, ma una gara di sopravvivenza, operata con ritmi, vincoli e vessazioni che la equiparano ad una forma di imprenditorialità ibrida ed impiegatizia, in cui arcaici valori devono fare da contraltare all’inedia e all’assistenzialismo “benevolo” delle istituzioni.
La deriva assistenziale della professione non è gratuita. Il regime la usa come merce di scambio, per comprare voti, mostrandosi come il sostegno a chi stenta a tirare avanti, ignorando che un avvocato schiavo del bisogno, non è libero e dunque, a maggior ragione, non può svolgere dignitosamente la professione di avvocato.
2 gennaio 2016
“La questione reddituale dell’avvocatura viene affrontata in modo assolutamente inadeguato dalle nostre istituzioni forensi. Tempo fa ho sollecitato una nostra indagine interna, volta a capire quali siano le aree di esercizio della professione che fruttano maggior reddito ai nostri colleghi. Naturalmente l’OUA, che dovrebbe fare questa e molte altre cose, ha ignorato l’esigenza di lavorare per illustrare ai colleghi le dinamiche che consentono la migliore allocazione di valore, lasciando che della questione se ne occupi – in modo totalmente errato – Cassa Forense, attraverso forme di vetusto assistenzialismo: l’ennesimo fallimento di Casiello & Friends.
Assegnare alla questione reddituale la giusta importanza avrebbe effetti decisivi nel tentativo di guidare la rinascita dell’avvocatura italiana. La gran parte dei problemi che vive la categoria derivano infatti dall’incapacità dei giovani professionisti di esercitare in modo proficuo la professione. Non è affatto un caso che il Consiglio Nazionale Forense continui a indirizzare gli avvocati verso la retorica dei “valori”, distruggendo in culla ogni opportunità di creazione di “valore”. Tale atteggiamento fa parte della politica di sfruttamento ideata dal Consiglio Nazionale: i giovani non devono guadagnare bene, ma devono sopravvivere quel tanto che serve, e poi lasciare il campo agli anziani.
Se avessimo un Organismo politico degno di tal nome, se i delegati congressuali fossero capaci e lavorassero, in un anno di mandato il nostro organismo avrebbe già realizzato un’indagine a campione capace di guidare i giovani colleghi verso i valori in grado di rendere valore, invece che continuare a declamare valori che portano alla miseria. Circolano ancora frasi che risalgono a Calamandrei, inneggianti all’avvocato povero, e prospera la retorica di un’avvocatura che debba rifiutare la logica del mercato, pena l’incapacità di tutelare i diritti. Si tratta di operazioni portate avanti da avvocati ricchi, che hanno fatto i soldi grazie alla tutela degli interessi dei soggetti più forti e prepotenti presenti all’interno della nostra società.
Nell’ambito dell’efficace allocazione di valore, risulta sicuramente anacronistico il rifiuto del patto di quota lite, propagandato dai padrini dell’avvocatura come un ulteriore cedimento alle logiche di mercato, ma in realtà elemento imprescindibile per l’esercizio futuro della professione forense. Il patto di quota lite infatti rende l’avvocato complice del proprio cliente, consente un rapporto virtuoso, in cui il pagamento di un giusto prezzo per l’impegno profuso dal professionista è ancorato ai risultati ottenuti dal proprio assistito. La logica che porta i padrini dell’avvocatura ad osteggiare il patto di quota lite è basata sulla difesa di uno schema arcaico di esercizio della professione: quello per cui l’avvocato lucrava parcelle sontuose a prescindere dai risultati. Uno schema ingiusto, e comunque ormai inapplicabile in una società non più disposta a pagare tangenti inique a rendite di posizione fuori dalla storia.
Il Consiglio Nazionale Forense non si limita dunque ad agire per la difesa di una concezione parassitaria della nostra professione, ma osteggia in ogni modo l’idea che il giovane avvocato debba andare verso la conquista di valore. Il termine “ricchezza” è bandito dall’orizzonte “ufficiale” dell’avvocatura italiana, come se il desiderio di lavorare e guadagnare tanto sia immorale. Il paradosso è che gli avvocati che comandano l’avvocatura, e che lavorano per continuare ad affamare i giovani, sono tutti ricchi, e sono divenuti tali sfruttando un sistema marcio e inefficiente. Ecco perché ai giovani si continua a propugnare retorica, perché nulla cambi nelle loro vite. Ecco perché la nuova avvocatura che dobbiamo costruire, non dovrà più nascondersi, e dovrà apertamente puntare al benessere dei propri esponenti, attraverso nuove forme di esercizio della professione.”