La narrazione della mancata rappresentanza politica dell’avvocatura italiana ha ormai assunto aspetti grotteschi, ma vale sempre la pena analizzare il responso dei fatti, che si oppone alla protervia e all’imperizia dei padrini del regime dell’istituzionalizzazione. Riavvolgiamo dunque il film: nel 1994 si avverte il bisogno di creare un soggetto politico avulso dai rappresentanti istituzionali, così definiti in base all’idea, che giuridicamente e politicamente è insensata, che esistano “istituzioni” che possano trattare temi politici, scevri da connotazioni politiche. In realtà, come ho spiegato molte volte, non esiste una rappresentanza istituzionale, che si confronti con la politica, che non sia politica. Il discrimine tra due strumenti rappresentativi è diverso, e lo descriverò anche in questo articolo.
Parliamo però del 1994 e della nascita di OUA, che rappresenta il tentativo di contare politicamente operato da tutto ciò che era schiacciato dall’operare politico di soggetti “istituzionali”. Quale era il peccato originale del progetto, se ve n’era uno? Il peccato c’era ed era costituito dal vizio che ancora gli avvocati italiani si portano appresso, ovvero l’idea, propagandata dal regime, che possa esserci distinzione tra varie tipologie di rappresentanza politica, e che questo possa tradursi in una pluralità di soggetti che, in modo concorrente, ma sostanzialmente sovrapponendosi, trattino delle stesse cose, assumendo posizioni che fanno riferimento alla stessa classe o aggregazione sociale. In una sola parola: il caos. Non ci credete? Analizzate le prime esternazioni di Antonio Rosa, neoeletto coordinatore illegittimo di OCF. Si, lo so, il salto temporale è importante, si passa dal 1994 al 2016, ma in questa esposizione del disastro è necessario collegare le premesse agli effetti, in modo da comprendere come nulla nasca per caso.
Il buon Rosa viene e-letto e cosa afferma, in primo luogo? Che vi sono temi su cui ciò che il XXXIII Congresso Nazionale Forense ha prodotto non basta a concedere operatività all’OCF. Primo tema citato: equo compenso, ovvero un argomento su cui il Consiglio Nazionale Forense vanta una primazia ed un’attività – tutta politica – di interlocuzione con il parlamento, che già nell’assetto che prevedeva la sovrapposizione con OUA si estrinsecava nell’assurdo di due soggetti, ciascuno inteso come “apicale”, che nel proprio ambito, si relazionassero con la politica, con posizioni potenzialmente divergenti, data proprio la reciproca autonomia.
Tiriamo dunque le fila, con uno schema logico che possa essere compreso anche da Sergio Paparo (oddio, ho i miei dubbi che il buon uomo possa comprendere, ma oggi mi sento generoso): equo compenso. Chi lo tratta? Il Consiglio Nazionale Forense, il Congresso Nazionale Forense, le proposte elaborate e suggerite alla politica dalla vecchia OUA e l’OCF, il quale dovrebbe essere mero esecutore di ciò che elabora il Congresso, ma chiede al Congresso di elaborare ciò che esso ritiene necessario alla bisogna. Insomma, abbiamo un esecutore che dice al suo mandante: “si, è vero che io devo fare solo ciò che mi ordini e mi autorizzi a fare, ma autorizzami a fare ciò che io ti ordino di autorizzarmi a fare”. E’ un pò come il mitico e tragico Bruno Cortona, che chiede al povero Roberto se si dovesse proseguire nelle avventure notturne o tornare a Roma, e alla risposta di Roberto, che spinge per tornare a Roma, oppone che… si, è vero che decide Roberto, ma che decide solo se decide “bene”, ovvero se fa ciò che decide Bruno. Sudario.
Il giochino, che a molti colleghi attanagliati dalla fame può apparire cervellotico, rappresenta invece un’analisi puntuale dell’inadeguatezza intellettuale e culturale dei soggetti che hanno proposto il progetto di rappresentanza fascistizzata realizzato a Rimini. Come ho spesso ripetuto in questi anni, molti tra loro non sono nemmeno cattivi ragazzi, è proprio che non ci arrivano, non hanno gli strumenti cognitivi per poter capire. Del resto Antonio Rosa, ideatore del progetto quotista, mi ha già dato modo, all’interno della vicenda congressuale di Venezia, del 2014, di apprezzare la sua formazione di ispirazione fascista e dunque non mi sorprende che egli consideri l’esecutore delle volontà congressuali come il soggetto in grado di imporre al Congresso, a soli tre mesi dal suo svolgimento, l’espressione di nuove volontà, che rendano accettabili quelle ritenute inutilizzabili.
Torniamo al 1994, lasciamo per un momento il deserto intellettuale e culturale rappresentato dai 51 e-letti occieffi e torniamo ad OUA, all’Organismo Unitario dell’Avvocatura, caratterizzatosi in realtà, fin da subito, come aggregazione di soggetti politici espulsi, non integrati o sconfitti nella corsa alla rappresentanza che davvero detiene il potere politico, ovvero quella “istituzionale”. OUA parte, nasce, si sviluppa e per oltre 10 anni non produce assolutamente nulla nel rapporto con la politica italiana. Non un solo progetto diviene legge che agisce sulle direttrici verso cui evolve l’esercizio della professione forense. Non si blocca in alcun modo la corsa all’accaparramento della rendita di posizione, che genera l’avvocatura di massa, non si analizza il rapporto clientelare ed ontologicamente foriero di corruzione che intercorre tra istituzione ordinistica, che eroga servizi, ed avvocatura, che in cambio dei servizi e dei servigi, elargisce voti ai propri padrini.
Già, la figura del padrino e quella della cupola. Sono immagini che ho utilizzato spesso per definire la rappresentanza istituzionale dell’avvocatura italiana, attirandomi minacce di querela e procedimenti disciplinari, che attendo con serenissimo disinteresse. Eppure i Consiglieri dell’Ordine degli avvocati, nell’epoca d’oro dell’avvocatura, ovvero quegli anni 80 in cui divenire avvocato voleva dire “fare i soldi”, anche se non si sapeva leggere o scrivere tanto bene, sono stati proprio dei padrini. Come nel celebre film di Francis Ford Coppola, il vincolo di fedeltà e sostegno che i padrini ricevevano dai colleghi era legato non solo e non sempre alla sopraffazione, ma spesso ad un mutuo scambio: favori personali, riconoscimenti, piccole prebende, che rinsaldavano il patto di vassallaggio tra padrino e figlioccio. Tutto ciò naturalmente è stato reso possibile da una concezione della rappresentanza figlia dell’humus culturale dell’avvocatura: una categoria in cui le migliori energie politiche non si dedicavano alla politica forense, ma venivano inserite, con ruoli spesso apicali, nei contesti politici locali e nazionali, lasciando ad occuparsi dell’evoluzione della professione le menti più labili, gli scarti.
1994 – 2012. Passano 18 anni dalla nascita di OUA, l’avvocatura è “in mano” a Guido Alpa, per usare un’espressione molto cara agli uomini di “Cosa Nostra”. Il buon vecchio Guido comanda tutto e, in accordo con la sua rappresentanza, scevra da connotazioni politiche, è l’uomo che cura il progetto di legge professionale forense, trattando con la politica. Si, è una contraddizione che potrebbe apparire stridente. Ma come, diranno i miei piccoli lettori, l’Organo che dovrebbe lasciare la politica al Congresso e ad OUA, è il referente primario dell’atto politico per eccellenza, ovvero la legge n. 247/2012? Si, è proprio così. Ed OUA? Silente, impotente, ridotta già ad oggetto privo di qualsiasi potere politico effettivo. E perchè? Semplice: seconde e terze linee al suo interno, assenza di potere politico, accentrato nelle mani del sistema degli Ordini territoriali, mancanza di denaro e di coraggio nel rivendicare un ruolo di sintesi libera e democratica di quella che, nel frattempo, più che una ristretta elite di cultori del diritto è divenuta un esercito di affamati mestieranti, in cerca di trastole che gli diano da vivere.
Alpa dunque scrive la legge professionale e in accordo alla sua formazione, che a differenza di quella di Antonio Rosa non è di ispirazione fascista, ma rigidamente padronale ed affaristica, accentra in due mani, ovvero le sue, tutto il potere. Concede locuzioni che definiscono le prerogative “istituzionali” del Consiglio Nazionale Forense tanto ampie da poter ricomprendere al suo interno ogni sorta di azione ed attività politica, creando, con diabolica astuzia, un mostro, capace di far arrovellare le labili menti delle terze linee sedute in OUA, su un dilemma inesistente: “ma il Consiglio Nazionale Forense, può fare politica?” La soluzione del dilemma è semplice: non può.
Un moderno Ordine professionale, che voglia essere garante, per conto dello Stato, del corretto adempimento degli obblighi che impone l’esercizio di una professione con rilevanti ricadute su un settore strategico della vita pubblica, quale è la giustizia, non può occuparsi contemporaneamente e con gli stessi uomini, di rivendicare presso lo Stato le libertà e le prerogative di categoria di quella classe professionale, rivendicandone le istanze in modo credibile e scevro da insanabili conflitti di interessi.
L’art. 39 della legge professionale. Tentativo di nascita del morto.
In realtà il vecchio Guido, ormai avanti negli anni, ma ancora affamato di denaro e di potere, ha lasciato aperto un varco alla contemporaneità. Un varco in cui un’avvocatura giovane, estranea al regime, potrebbe e dovrebbe intrufolarsi, utilizzandolo come grimaldello per la caduta del “sistema”, nel frattempo divenuto una gigantesca macchina clientelare, che fa della corruzione e del voto di scambio il carburante privilegiato di un consenso insipido, privo di qualsiasi contatto con l’esercito di mestieranti, “so called”… avvocatura. L’art. 39 della Legge Professionale Forense dice che è il Congresso Nazionale, la massima assise della Categoria, a poter trattare e formulare le proposte che riguardano la professione forense e la giustizia.
BOOM! Sarebbe un’arma formidabile, pur nella sua vaghezza, se solo si trovassero soldati pronti ad imbracciarla, ma come dice il soldato Joker, non è il fucile che uccide, ma il cuore di pietra. Il morto non nasce, nessuno è in grado di comprendere che la rivendicazione del ruolo politico di un’avvocatura necessariamente libera dal sistema clientelare degli Ordini professionali è l’unica speranza di creare la sintesi unitaria di una altrimenti “non classe” e i figliocci del vecchio padrino, ormai passato ad altre e non meno remunerative attività, dopo il traguardo della legge professionale, azzannano tutto ciò che possono, riducendo gli avvocati non integrati nel “sistema” ad un ruolo di sostanziale inagibilità politica.
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Discorsi fatti tante volte, purtroppo invano. Saltiamo ancora, torniamo ad OCF, alle ragioni strutturali per cui questo Organismo è la prosecuzione di una rappresentanza incapace di rappresentare. L’errore, che non poteva essere sciolto dai suoi ideatori, perché essi rappresentano pienamente la contraddizione di cui parliamo, è stato quello di considerare questo Organismo come il mero esecutore di deliberati che non siano assunti quale sintesi vincolante del pensiero politico della classe, bensì risultino essere una delle espressioni politiche della classe. La pluralità delle voci dell’avvocatura, lungi dall’essere ricondotta all’interno di una dialettica dagli esiti vincolanti e “massimi”, come è nel dettato dell’art. 39, è stata lasciata schiava del ruolo politico autonomo ed autoritario della componente ordinistica e-letta nel Consiglio Nazionale Forense, mentre tutto ciò che non è entrato nel Consiglio Nazionale Forense, ma è sempre espressione del clientelismo e dello strapotere politico del sistema ordinistico, ha creato un nuovo centro di potere politico, necessariamente affetto da concorrenza dualistica con la banda di Mascherin, ed impossibilitato a fungere da elemento sintetico delle espressioni dell’avvocatura esterne al regime.
Di cosa stiamo parlando? Quali sono i numeri, quale la rappresentatività degli occieffi? Al di là dei sistemi elettorali illegittimi, dei Presidenti degli Ordini a capo del Congresso, quali membri di diritto e padroni delle operazioni, la cupola ordinistica può contare forse su quindicimila “soldati”. E’ un calcolo che considera come “istituzionalizzati” la metà dei votanti alle ultime elezioni relative al XXXIII Congresso di Rimini, e può spingersi fino a considerare le ventimila unità, se ragioniamo di range possibili, in mano al nostro opponent seduto al tavolo da poker.
Dunque, la cupola, forte di un esercito che oscilla tra i 15 e i 20 mila soldati, comanda, all’interno del sistema clientelare ordinistico, una categoria che conta tra i 230 e i 240 mila professionisti. Tornano a questo punto utili i teoremi dell’istituzionalizzazione forense, che ho pubblicato tempo addietro, e che spiegano come sia possibile per il sistema l’asservimento delle masse inerti, attraverso i meccanismi di fidelizzazione e cooptazione dei paperi fedeli, favoriti dall’inazione dei sottoposti.
Guido aveva pensato anche a questo. Consapevole che occorrevano nuove poltrone per sfamare l’accresciuto numero di padrini che volevano partecipare al banchetto, aveva ben pensato di aumentare il numero di Consiglieri dell’Ordine, costretto ad applicare la formula del teorema che dice che quante più sono le pecore, tanto più alto è il numero di beneficiari a cui il sistema è costretto a dispensare pezzi di potere, per evitare il rischio di ammutinamento.
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Un racconto epico, una sorta di romanzo, in cui cavalieri erranti, vecchi rottami e giovani aspiranti al futuro si fronteggiano, senza regole e senza prospettive. OCF è già morto, cammina a piedi nudi sulla foto di copertina di Abbey Road. La rappresentanza politica della classe forense non riesce ad incanalarsi nello schema parlamentare, che pure è l’unico in grado di fare del Congresso un luogo di vera elaborazione permanente, affidando ad un governo che sia esecutivo, e non mero esecutore, l’integrazione, la guida e l’applicazione dei deliberati del Parlamento/Congresso. Noi di NAD a Rimini ci avevamo provato. Ci è mancata una firma, delle 50 necessarie, perché perlomeno i servi del regime non potessero spargere la vulgata dell’assenza di progetti alternativi al fallimento che stiamo vedendo in azione in queste settimane.
OCF is dead. L’avvocatura di massa muore, perché incapace di essere sintesi unitaria, basata sulla distruzione del potere temporale dell’Ordine Forense, che da custode degli interessi dello Stato è divenuto Signore della plebe, padrone assoluto degli aspetti pubblici e partigiani della politica che sta a cuore agli avvocati.
OCF is dead. Allen non si sente molto bene, gli avvocati muoiono di fame e intanto le indennità dei padrini aumentano.
Baciamo le mani.